C’Era Una Volta A… Hollywood – Il Racconto Della Conferenza Stampa

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Estate 2019.

Roma, 3 Agosto. È un sabato caldo e assolato. Nei pressi del Cinema Adriano, in Piazza Cavour, sono ancora visibili i postumi della Premiére di un film Hollywoodiano, uno di quelli che si è disposti a stare lì ad aspettare già dalla mattina, sotto il sole cocente, fino alla sera, sotto alla pioggia estiva, fugace ma battente.

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Un po’ come era andata il giorno prima, quando centinaia di persone hanno condiviso per ore un posto dietro le transenne per poter avere la propria, piccola (si fa per dire) Hollywood personale, e hanno atteso l’arrivo di alcuni dei più grandi nomi del cinema mondiale, venuti qui nella Capitale per presentare il loro ultimo sogno su pellicola: C’Era Una Volta A… Hollywood, in uscita il 18 settembre nelle sale italiane.

E di sogno si tratta se, pubblico o stampa, davanti a sé ci si ritrova poi un gruppetto formato da Quentin Tarantino, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie, David Heyman e Shannon McIntosh.

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E così, verso mezzogiorno e mezzo del penultimo dì della settimana, ecco regista, attori e produttori prendere posto dietro i microfoni per quella che sarà la conferenza stampa romana del film.

Prime domande della giornata rivolte ai due produttori della pellicola, Shannon McIntosh, già collaboratrice di Tarantino in altre occasioni, e David Heyman, celebre produttore delle saghe del Wizarding World (Harry Potter, Animali Fantastici).

Parte la McIntosh, in riferimento al rapporto regista-produttori: «È un viaggio fantastico. Ogni volta che ti propone qualcosa da leggere, ti fornisce uno script alto tanto [mostra quanto con le mani], lo leggi, e sai già che sei pronto a imbarcarti per la tua prossima avventura. Lui  ti mette davanti sempre a tanta avventura e divertimento, così quando leggi la sceneggiatura non puoi che pensare “Ma come faremo tutto questo?”. Allora provi a estrapolare ogni parola, inizi a cercare le location, a immaginare come fare affinché la sua visione si concretizzi e la magia possa divenire realtà. È un’esperienza magnifica».

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Anche a David Heyman, che di portare la magia sullo schermo decisamente se ne intende, viene chiesto di condividere la propria esperienza al fianco del regista. «Privilegio, è la prima parola che mi viene in mente per descriverla. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei registi meravigliosi nel corso della mia carriera, ma questa è stata davvero un’esperienza unica. Quentin è un maestro della regia: ha il controllo di ogni singolo aspetto della produzione; quando leggi i suoi script, sono così dettagliati, che è come se avessi le scene davanti agli occhi. E poi le vedi davvero prendere vita con questa incredibile famiglia, davanti e dietro la cinepresa. La sua attenzione per i particolari, la sua inventiva senza fine, e allo stesso tempo la facilità con cui crea un’atmosfera di eccitazione, di possibilità e inclusività… Ho lavorato con molti registi che creano attraverso il dolore, ma Quentin crea attraverso il piacere. È stata davvero una delle più belle esperienze della mia carriera».

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Il microfono passa a uno dei protagonisti del lungometraggio, Leonardo DiCaprio, che sullo schermo veste i panni di Rick Dalton, grande nome della Hollywood anni ’60 dipinta nel pittoresco mondo creato da Tarantino. Ma come è stato interpretare questo personaggio che si trova in un momento della sua carriera che non è dei più alti? «Prima di tutto, la sceneggiatura di Quentin è stata assolutamente brillante nel dar vita a questi due personaggi e al rapporto tra di loro; uno stuntman e un attore che osservano dalla periferia di Hollywood, che guardano questa cultura, questa industria che sta cambiando, e cercano allo stesso tempo di sopravvivere al suo interno» racconta l’attore Premio Oscar «Ma quello che era più interessante del suo approccio è che si trattava di uno scorcio di vita, un paio di giorni. E credo che una delle conversazioni iniziali tra me e Quentin fosse tutta sul come fare per ritrarre l’anima di questo personaggio in un così stretto lasso di tempo. E molto aveva a che fare con il mio personaggio [Rick Dalton] alle prese con un ruolo in uno show a cui non voleva esattamente prender parte, un ruolo da villain, sentendosi come se fosse stato messo lì per facilitare il lancio della nuova generazione di attori, mentre lui veniva lasciato indietro. Così il nostro processo creativo si è incentrato sul cercare di realizzare quei momenti, quei dettagli che avrebbero potuto dare davvero al pubblico quel pathos, l’essenza di quest’uomo. E questo ha dato vita a tutti quei pezzetti in cui si impiccia con le battute, dà di matto nei camerini… E questa idea che il personaggio potrebbe essere bipolare, e che possa soffrire d’ansia, per via del fatto che alla fine è un essere mortale, e che la cultura e l’industria stanno andando avanti, nonostante tutto».

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Ma che effetto fa ritrovarsi all’interno di serie e film che hanno segnato un’epoca e ora non ci sono più? «Uno dei privilegi dell’essere un attore è quello di essere esposti non solo ad argomenti che padroneggi e con cui hai una grande familiarità. Come penso sappiate tutti, Quentin è un vero e proprio cinefilo. Ma non è solo questo, lui sa anche tantissime cose sulla televisione e sulla musica, quindi ho avuto l’opportunità di essere esposto a un’era, quella degli anni ’50 e ’60, piena di serie e film pulp sui cowboy, film che non avrei probabilmente visto, ma lui ha un tale rispetto per queste pellicole, lo stesso che abbiamo tutti nei confronti di quelli che consideriamo dei capolavori. E abbiamo preso ispirazione da diversi attori per questa parte, ma ce ne è stato uno in particolare, Ralph Meeker, ed è stato fantastico vedere il rispetto di Quentin per questo attore che io non conoscevo bene, e che molte persone probabilmente non ricordano bene. Ma abbiamo guardato alla sua carriera, alla sua filmografia, con il rispetto e la voglia di scoprire come qualcosa del genere sia stato poi dimenticato nel tempo, e quale sia stata la base di quel declino creativo. E potrà anche non aver avuto tutti i ruoli che desiderava, ma ha comunque dato il suo contributo al cinema e alla televisione. Che è qualcosa che lui stesso potrebbe non aver realizzato».

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E a che punto del suo percorso professionale pensa di essere Leonardo? «Sono cresciuto guardando film, e non penso che riuscirei ad ottenere quello che sono stati in grado di ottenere i miei eroi. Perciò cerco continuamente di migliorarmi, di lavorare a film sempre migliori, di interpretare personaggi migliori, di fare tutto ciò che in mio potere per cercare di raggiungerli, perché loro hanno fatto così tanto, e non credo di potermi mai sentire alla loro altezza».

 

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Che effetto fa vedere delle storie così lontane nel tempo, come quelle storie che sono state riportate in vita in C’Era Una Volta A… Hollywood? La domanda è rivolta al trio DiCaprio-Tarantino-Robbie, ed è proprio quest’ultima a rispondere per prima: «Credo di essere grata, per alcuni versi, di lavorare nell’era attuale, perché ci sono così tanti ruoli femminili, ultimamente, che sono davvero entusiasmanti e degni di nota. Ma non è che non esistessero a quei tempi… forse erano più scioccanti e innovativi, all’epoca. Guardando film degli anni ’50 e ’60, ne ho visti così tanti che adoro, e so che Hollywood è cambiata parecchio da allora, specialmente dal periodo in cui è ambientato il nostro film; il momento di passaggio vero e proprio c’è stato tra il ’65 e il ’69, che ha poi spianato la strada agli anni ’70. E credo che al momento Hollywood stia seguendo un percorso simile, stiamo vivendo un nuovo passaggio verso un tipo di contenuti differenti ed entusiasmanti».

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La parola passa poi a Tarantino, che afferma: «Alcuni dei film di cui abbiamo parlato nella nostra pellicola, li ho visti tra il ’69 e i primi anni ’70, perché sapete, prima potevano restare anche un anno al cinema. Nel caso di The Wrecking Crew, l’ho visto quando uscì, credo avessi 6 anni, ed è interessate, ricordo che avevo già visto i film di Dean Martin e Jerry Lewis, ero un fan, erano tra le celebrità più famose al mondo. Ma sono stato assolutamente rapito da Sharon Tate in quel film. Se lo avete visto [il film], è una performance davvero divertente, perché interpreta questo agente segreto un po’ maldestro. E lei aveva un dono, era portata per questo genere [la commedia], ed era davvero divertente vederla eseguire queste acrobazie alla maniera delle slapstick comedy. A 6 anni, la slapstick comedy è probabilmente il tuo genere preferito, e ti vedi questa ragazza carina che inciampa di qua e di là, senza però perdere mai il suo aplomb. Era assolutamente affascinante, mi ha completamente rapito, e il film ha queste gag fantastiche, soprattutto nel finale… Ha davvero fatto colpo sull’audience. Ricordo di averlo visto al Garfield Theater di San Gabriel, e ha davvero fatto scoppiare fragorose risate e applausi in sala» e poi aggiunge «Tra l’atro, cosa che credo sia parte dell’ispirazione per la scena di Margot al cinema, quando il film è uscito in sala, ho fatto la stessa cosa che ha fatto lei [in C’Era Una Volta A… Hollywood]: stranamente il cinema in cui ero in quel giorno aveva un patio simile a quello del Bruin, e quando sono uscito dalla sala con i miei genitori, sono andato vicino al poster del film per vedere chi fosse quell’attrice. Ho guardato le insegne, le stesse che ho usato anche io nel film, e ho chiesto “Chi è Miss Carlson?” e mi è stato risposto “Sharon Tate” al che ho commentato “Forte, sembra una a posto”. Per quanto potesse sembrarmi a posto un adulto all’età di sei anni. Ora, credo che The Wrecking Crew sia un bel film, anche se un po’ assurdo, e io sono un grande fan del regista, Phil Karlson, ma quella pellicola in particolare credo sia un pochino ridicola… Ma lei era così affascinante e brava! E mi è piaciuta l’idea di mostrare la clip originale del film, dove lei e Nancy Kwan hanno questo scontro coreografato da Bruce Lee. Credo sia davvero divertente».

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Infine è DiCaprio a dire la sua sul “throwback”: «Penso fosse affascinante, perché sapete, ho pensato al 1969, e come mai questo film sia ambientato proprio in questo periodo. Così ho cercato su google tutto quello che è accaduto a livello culturale in quell’anno, tutti i film che sono usciti, ed è davvero un punto di svolta letterale nella storia americana e in quella del cinema americano; credo abbia spianato la strada ai nostri eroi. Era l’era dei registi, quando il potere di rendere un film tra i più memorabili era in mano loro. È stato davvero un punto di svolta culturale».

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Il successo riscontrato oltreoceano di C’Era Una Volta A… Hollywood ha a che fare, secondo Tarantino, con l’effetto nostalgia? «Beh, credo che in realtà sia una combinazione di cose. È un soggetto interessante, e non ci sono altri film quest’anno che affrontano l’argomento e possono definirsi simili, quindi ha il beneficio di potersi dire unico. Penso che molto si debba anche al cast, la gente è davvero entusiasta di poter vedere questi attori nel film. E poi, credo che sia stato fatto un buon lavoro con la pubblicità, sembra un film di grande intrattenimento, un buon modo per passare una serata. Le recensioni, almeno in parte, hanno contribuito a confermare la tesi, quindi sì, direi una combinazione di tutte queste cose».

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Come nasce la passione del regista per i film di un certo tipo di produzione nostrana, come i B-Movie e i Western all’italiana? «Sono un fan dei film di genere in generale, e sono un fan di quelli che voi chiamate B-Movie. Mi piace molto la prospettiva italiana sui film di genere, che si tratti di Spaghetti Western, Macaroni Combat, Gialli,  Peplum… In realtà i Peplum non mi fanno impazzire tanto quanto il resto, ma ad esempio adoro le Sex Comedy all’italiana. Una delle cose che più mi affascinano di questi generi, in particolare degli Spaghetti Western, dei Gialli e dei Polizieschi è che sono il loro punto di partenza sono stati i policier francesi oppure i western americani anni ’50, ma poi li hanno reinventati. Proprio l’idea di prendere un vecchio genere e trovare un nuovo modo di raccontarli, a un nuovo pubblico e con un’enfasi diversa mi entusiasma tantissimo. Adoro come siano riusciti a fare una cosa simile. È un modo per aggiungere nuove sfumature al genere, e in particolare nel caso degli Spaghetti Western, quei registi come Leone, Corbucci, Sollima, Tessari… Quasi tutti loro hanno iniziato come critici cinematografici, per poi diventare sceneggiatori e passare alla seconda unità. Loro erano assolutamente appassionati e innamorati del cinema come lo erano gli artisti della Nouvelle Vague francese che ebbero un simile percorso. E il loro estremo entusiasmo per il genere è semplicemente delizioso. E anche, quello che per me li rende ancora più italiani, è l’impegno nei confronti dell’opera: il modo in cui presentano il prodotto è più grande, fuori dall’ordinario, come per le colonne sonore, adoro questo modo di fare operistico, così esagerato. Il primo libro che ho letto sugli Spaghetti Western è stato nel ’79, ed era un libro pubblicato in Inghilterra intitolato Spaghetti Western: L’Opera Della Violenza. E credo di stare cercando di realizzare la mia opera della violenza ormai da una vita!».

Ma dopo Bastardi Senza Gloria e C’Era Una Volta A… Hollywood, c’è una terza riscrittura tarantiniana della storia in programma? «In realtà credo che sia questa la terza riscrittura tarantiniana. Bastardi è stata la prima, Django la seconda, e questa è la terza nella mia personale “trilogia”».

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A un certo punto Enrico Magrelli, il moderatore dell’incontro, nel porre una domanda a Margot, decide di rendere noto agli ospiti il titolo italiano di The Wrecking Crew, ovvero Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, provocando le sonore e incontrollate risa di Tarantino, che una volta ricominciato a respirare ha affermato: «Voi italiani e questi titoli! The Inglorious Bastards (di Castellari) lo avete tradotto Quel Maledetto Treno Blindato… Perché???»

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Ad ogni modo, la Robbie racconta poi, come richiesto da Magrelli, l’esperienza sul set il giorno della già più volte citata scena al cinema: «Il giorno in cui abbiamo girato la scena, Quentin mi raccontò che a lui capitò una cosa simile una volta in un cinema che dava True Romance, e che allora di getto pensò “Beh, ho scritto io il film, posso entrare gratis?”. Ed era una storia così dolce. E credo che molte delle cose di questo film, questi piccoli ricordi di Quentin inseriti nella narrazione, rendano tutto ancora più specifico, intimo e speciale. Io non c’ero ancora nel ’69, ma Quentin sì, e quando ho letto la sceneggiatura, mi sono sentita trasportata in quegli anni, era come se stessi leggendo dal suo punto di vista come fosse vivere a quel tempo, e ha reso tutto più speciale. Cosa c’era in radio in quel periodo? Quali canzoni si sentivano? Cosa trovavi per strada viaggiando in macchina, cosa avresti visto passando? Questo livello di specificità è davvero un dono. Non dovevi nemmeno immaginarti altro oltre a quello che aveva detto Quentin. E anche sul set… Lui non si affida alla CGI, ed essere su un set del genere di questi tempi è davvero raro. In alcuni casi sei circondato da green screen, e il resto verrà aggiunto in un secondo momento. Non so dire quale gioia è stata non solo prendere parte a quella scena in particolare, essere davvero al Bruin, e sapere che anche Quentin ebbe un’esperienza simile, ma proprio essere nella Hollywood del ’69, perché è così che ci si sentiva. È stata una delle gioie più grandi della mia carriera, e non so se riuscirò a provare lo stesso in un’altra occasione».

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Quanto la Hollywood di oggi è diversa da allora? E il cinema può davvero mutare la realtà? Risponde Tarantino: «Per me il cinema è così diverso da quando iniziai io negli anni ’90, figurarsi rispetto al 1969! Una cosa la dirò però. Ogni volta che mi fanno una domanda, vorrei dire così tante cose che ho in mente, che di solito vado con la prima che mi viene. Questa volta è un po’ come ha detto anche Margot: ai vecchi tempi, come forse li possiamo chiamare, ma anche negli anni ’90, la gente costruiva ancora i set. Non era solo materiale aggiunto dopo. Mi piace vedere film come Life Force di Tobe Hooper, in cui c’erano questi magnifici set situati in enormi magazzini dove ricreavano completamente questi nuovi mondi. E non sembravano poco verosimili. Guardavo Cutthroat Island di Remy Harlin, ed era già di per sé un  buon film, ma dal punto di vista della scenografia era davvero fantastico; avevano costruito questo villaggio intero, e c’era questa sequenza d’azione che potevano fare solo in quel modo. Non c’era CGI, è costata una fortuna, ed è tutto lì, sullo schermo. E adesso anche i film con un budget davvero grosso non hanno tempo per queste “cavolate”.  E credo semplicemente che qualcosa sia andato terribilmente perduto. E questa terribile perdita riguarda l’effetto visivo, il film e soprattutto la fattura. E credo che questo rappresenti un pericolo [per la cinematografia]. Una delle cose che meno gradisco di questa digitalizzazione non è solo il fatto che, da vecchiaccio brontolone quale sono preferisco la pellicola al digitale, ma è tutto quel processo artigianale che c’è dietro ogni stadio del voler catturare l’immagine in un certo modo. È facile ricorrere al digitale, è facile anche quando si pianifica soltanto di ricorrerci, perché il video ti dà una vasta scelta e una maggiore libertà d’azione. Ma se hai qualcuno come Bob Richardson [direttore della fotografia di Tarantino], lui ha catturato l’immagine così bene che, una volta passato per tre processi di duplicazione, il film che avete al cinema è assolutamente fantastico. Molti non sanno come fare una cosa del genere, ed è ciò che distingue quelli veramente bravi dagli altri. Le persone che sanno prendere la pellicola e lavorarla fino a che quello che viene mostrato sullo schermo non risplenda di luce propria. E questa è la fattura artigianale, e si sta sempre più estinguendo, ragazzi. Non so se il cinema può cambiare la storia, ma so che può influenzarla».

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È ancora Magrelli a chiedere, questa volta a Leonardo, come ci si sente nel diventare l’attore di riferimento di un regista, e quali sono le responsabilità crede di avere in quanto tale. «Credo che se la mettessi in termini di responsabilità sarebbe un po’ intimidatorio. In tutta onestà, sono cresciuto come fan dei film e del cinema. A ogni attore che mi chiede consigli per farcela in questa industria, la prima cosa che dico è “Guardate più film che potete. Trovate i vostri eroi. Trovate qualcuno o qualcosa che vi influenzi. Create la vostra identità… Abbiamo dei giganti come predecessori. E come dicevamo prima, magari guardate indietro a quanto fatto in passato, che so, negli anni ’20”. Parlando di set, ti trovavi davanti questi set che sembrava veramente di essere nel Selvaggio West. Il numero di persone che si riuniva per creare qualcosa di nuovo a livello visivo… Abbiamo tutta questa storia a cui guardare, e ci sono così tanti generi e così tanti periodi nella storia del cinema che possono influenzarci. Di solito quello che mi domando è piuttosto “Con chi voglio lavorare che riuscirà a pormi in una situazione tale che io possa dare il meglio di me? Chi sarà in grado di dare vita a quella sceneggiatura che ho letto? È un mezzo che è fatto per i registi, noi vediamo il cinema attraverso gli occhi del regista, quindi chi di loro sarà in grado di far risaltare al meglio la performance dell’attore, la sceneggiatura, e dare all’audience quella sensazione rara di poter davvero creare una connessione con quello che accade sullo schermo? È un dono raro. Quindi sì, per me fa tanto il regista, ed è ciò che cerco di solito».

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E dopo la risposta all’ultima domanda e un «Grazie! Grazie a voi, è una delle conferenze più appassionate a cui io abbia mai preso parte» da parte di Tarantino, ci accingiamo a salutare i monumentali artisti che ci hanno accompagnato, almeno per un po’, in questo viaggio attraverso Hollywood, il cinema e la sua storia.

Laura Silvestri

Foto: Laura Silvestri
Materiali Stampa: Sony Pictures

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