Citadel – Recensione e Incontro Stampa: Le Spie di Prime Video Invadono Roma

I produttori e il cast di Citadel hanno reso la città Eterna il loro luogo di ritrovo per un evento di portata globale: la nuova spy series di Prime Video è stata presentata in anteprima a Roma. Leggete il nostro rapporto della missione per sapere come è andata!

Rapporto missione Citadel. Roma, 21 aprile. Il cast e i produttori della nuova serie tv di Prime si recano in piazza della Repubblica. Ad attenderli una folla composta da addetti stampa, fotografi e studenti. La città è in fermento. Di seguito, quanto accaduto.

Niente CIA, niente FBI. Pesci troppo piccoli, “squadrette di serie B”, come fa notare anche l’agente Nadia Sinh interpretata da Priyanka Chopra Jonas. Qui, al centro di tutto, è Citadel, l’agenzia indipendente di spionaggio internazionale più rispettata e temuta, almeno da coloro che credono alla sua esistenza. Ma cos’è una leggenda se non una fiaba per della buonanotte per alcuni, un mito da sfatare per altri, e un obiettivo da annientare per chi, come l’organizzazione nota con il nome di Manticore, punta al predominio globale assoluto?

Queste le premesse della nuova serie TV in arrivo il 28 aprile su Prime Video, che vede tra le menti creative che vi hanno lavorato i registi del MCU Anthony e Joe Russo, la produttrice Angela Russo-Ostat e il produttore esecutivo David Weil, tutti presenti in sala durante la proiezione dei primi due episodi, assieme ai membri del cast principale Richard Madden, Stanley Tucci e Priyanka Chopra Jonas, in occasione dell’anteprima italiana dello show.

L’aspetto più interessante di Citadel risiede senz’altro nel concept stesso della serie, l’idea di un universo televisivo che partirà dalla serie madre, per poi espandersi con svariati spin-off inerenti a differenti location (sono già in sviluppo quello italiano, con Matilda De Angelis, e quello indiano). “Stiamo costruendo una comunità di storie e storyteller in tutto il mondo per raccontare un’unica grande storia” spiega Joe Russo, che in compagnia del fratello Anthony, hanno già avuto il difficile compito di sviluppare universi narrativi di incredibile portata.

E allora ecco che vediamo gettarne le basi fin dai primi, esplosivi minuti del primo episodio, in cui ci vengono presentati Mason Kane (Richard Madden) e Nadia Sinh (Pryianka Chopra Jonas), affiatata coppia di spie guidata da Bernard Orlick (uno Stanley Tucci che è sempre una garanzia), che tuttavia si ritroverà nei guai assieme all’intera organizzazione quando una missione apparentemente di routine innesca la loro disfatta e lo scioglimento forzato di Citadel… Almeno fino a 8 anni dopo, quando Mason, privo di memoria, ricompare sui radar amici e nemici.

Senza spoilerarvi troppo di ciò che vedrete sullo schermo, tra valigette da trovare, ricordi da recuperare e minacce da sventare, possiamo dirvi che non vi troverete certo di fronte il più originale dei prodotti di genere, anzi, tra omaggi voluti o meno, la natura di Citadel è piuttosto derivativa dei grandi titoli del passato e del presente, – da Bourne a Bond -. Non è dunque un’unicità di contenuto che va ricercata in questo show, quanto ciò che più può portarvi a seguire passo passo le avventure dei suoi protagonisti.

Tra le motivazioni principali, possiamo offrirvene noi un paio: la prima è senz’altro il cast dello show, che si prende gran parte del merito di un suo eventuale successo, e anche in caso di flop sarà comunque visto come una delle sue “saving grace“. Dopotutto, ciò che sanno fare meglio queste spie, oltre a darle di santa ragione (le scene d’azione non deludono, pur non facendo balzare lo spettatore dalla sedia) è interagire tra loro. Il trio Madden-Chopra-Tucci viene consolidato fin da subito – anche se Tucci è lì a guidarli da remoto per la maggior parte del tempo – e soprattutto le battute di quest’ultimo e come vengono eseguite contribuiscono ad elevare il livello d’intrattenimento.

La chimica tra le due spie di punta di Citadel è palpabile, anche se come coppia meritavano probabilmente un’origin story meno frettolosa (ma non è detto che non venga ampliata nei successivi episodi). È comunque chiaro come il loro rapporto sia alla base della storia, e c’è ancora tanto da scoprire al riguardo (Nadia sembra avere parecchio da nascondere, ma anche Mason può riservare ulteriori sorprese). E, tornando al discorso delle interpretazioni, le star di Quantico e di Game of Thrones sono più che azzeccate nei rispettivi ruoli. Madden, ad esempio, sembra avere tanto da dire in un ruolo che gli permette di dare prova di tutta la sua abilità attoriale: “Mason è questa spia incredibilmente figa, ma poi vediamo un lato totalmente diverso di lui. La sua memoria viene cancellata, e ci troviamo di fronte un uomo normale, con cui l’audience dovrà partire per un viaggio senza precedenti. Il pubblico vedrà attraverso i suoi occhi quello che è il mondo di Citadel, e scoprirà molto di più su di lui, Nadia e tutti gli altri giocatori in campo” anticipa l’attore.

Incuriosiscono, poi, i legami tra i vari personaggi; funziona il trope già collaudato della “spia tra le spie”, che vedremo dipanarsi nel corso dello show, e in generale vengono applicati tanti di quei cliché di genere – alcuni necessari e anche ben congegnati, altri meno – che si avrà sempre l’impressione di avere a che fare con qualcosa di familiare, anche quando Citadel prende una propria strada. Se questo, però, può essere visto come un bonus o un malus, sarà lo spettatore che dovrà deciderlo.

Tra gli appunti che potremmo fare a Citadel, almeno per quanto riguarda i primi episodi, il più pressante riguarda probabilmente il pacing: un ritmo così frenetico non giova alla narrazione, e soprattutto alla costruzione dei dialoghi, che spesso si riducono a dei botta e risposta ad effetto tra i personaggi per sostituire un’esposizione a tratti un po’ confusionaria, a tratti un po’ troppo “on the nose“. Ok che le spie vanno di fretta, ma non è sempre un bene rispecchiare questa caratteristica anche nel modo di raccontare la loro storia.

Detto ciò, resta da vedere come proseguirà lo show per poter giudicare al meglio. Non sappiamo come verranno sfruttate ambientazioni e tempistiche nei restanti episodi (ad esempio, si potrebbe argomentare che passiamo davvero poco tempo nelle varie location, ma probabilmente sarà a discrezione dei prossimi episodi e degli spin-off ampliare tutto in tal senso), né quanto verranno approfonditi i vari personaggi e le loro backstory (tuttavia, dovrà giocoforza essere un “di molto” la risposta a questa domanda), per cui allacciate le cinture, perché le spie di Citadel (e la sinistra Manticore) sono in agguato!

I primi episodi di Citadel saranno disponibili su Prime Video a partire dal 28 aprile, con un nuovo episodio in uscita ogni venerdì fino al 26 maggio.

Laura Silvestri

Info

Titolo: Citadel

Durata: 6 episodi

Data D'Uscita: 28 aprile 2023

Regia: Newton Thomas Sigel, Jessica Yu, 

Con: 

Richard Madden, Priyanka Chopra Jonas, Stanley Tucci

Distribuzione: Prime Video

Materiali Stampa: Prime Video, Laura Silvestri

Diabolik – Ginko all’attacco! Ovvero l’importanza di andare al cinema

Diabolik torna sul grande schermo con la seconda avventura targata Manetti Bros., un nuovo volto (quello di Giacomo Gianniotti) e la promessa di un ulteriore appuntamento cinematografico. Questo è Diabolik – Ginko all’attacco!

Il 17 novembre arriva nella sale Diabolik – Ginko all’attacco!, secondo film dedicato al ladro dai mille volti nato dalla fantasia delle sorelle Giussani. E anche questa volta sono due fratelli a dargli vita sul grande schermo, i Manetti Bros., che dirigono il sequel-non-sequel con protagonista Giacomo Gianniotti (subentrato nel ruolo dopo l’addio di Luca Marinelli, interprete del personaggio nella precedente pellicola).

Questo film non è un seguito, non è un sequel. Diabolik è un personaggio come James Bond, Batman, Sherlock Holmes, ovvero personaggi universali, e quindi l’idea è quella di raccontare un’altra storia, di realizzare un altro film. Quindi per noi non è un sequel, ma semplicemente un altro film” spiega Marco Manetti durante la conferenza stampa in occasione della presentazione del film a Roma, nella splendida cornice del nuovo Cinema Barberini.

E in effetti i connotati di “un altro film” come lo intende Manetti, Diabolik Ginko allattacco li ha, a partire per l’appunto dal diverso interprete per Diabolik. Ma portando la stessa firma del precedente, vi è continuità nello stile, nel tono, e va detto, anche in ciò che non funzionava con il primo lungometraggio.

Il ritmo prolisso, l’impostazione rigida, l’eccessiva esposizione dei fatti e quel tocco in più di kitsch che sfocia nell’eccesso non aiutano l’assimilazione di un film che, dal punto di vista estetico, dà invece tanto e dimostra tutta la maestria italiana nell’ambito della settima arte.

Se, infatti, la pellicola va premiata per restituirci una così fedele rappresentazione visiva di ciò che era il Diabolik dei fumetti e del suo spirito (l’albo che funge da ispirazione qui è il sedicesimo), se vanno assolutamente elogiati dipartimenti come quello dei costumi e della scenografia, se possiamo udire delle musiche scelte ad hoc – in questo film, oltre all’operato di Pivio e Aldo De Scalzi abbiamo anche il contributo di Diodato con un brano originale composto appositamente per il lungometraggio – abbinate anche alle distintive coreografie di Luca Tommassini, si fa ancora fatica a giungere al termine di quei 111 minuti senza remore, senza pensare che non si potesse sistemare (più di) qualcosa qua e là (specialmente in termini di dialoghi).

Per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, Gianniotti si dimostra un Diabolik più calato nel ruolo e meno stoico di quello di Marinelli, e Miriam Leone conferma il suo essere la scelta perfetta per la parte di Eva Kant, che anche qui trova il modo di risaltare rispetto ad altre figure e si impone come uno dei migliori personaggi del film; sembrano funzionare in buona misura anche le nuove aggiunte, come il personaggio interpretato da Alessio Lapice, Roller, e la Duchessa Altea di Monica Bellucci, che ci permette di vedere un altro lato del Ginko di Valerio Mastandrea (tuttavia quest’ultimo, sebbene questa volta sia addirittura tra i personaggi titolari, paradossalmente sembrava brillare di più e sostenere maggiormente il peso della pellicola nel precedente appuntamento cinematografico).

Non dimentimentiamoci infatti di uno dei temi principali della pellicola, come rimarcano anche gli stessi registi: si tratta un film all’insegna dell’amore, dell’amore tra Ginko e Altea, ma anche di quello tra Diabolik e Eva, entrambi messi costantemente alla prova dalle circostanze, ma con differenti declinazioni ed esiti.

Nel primo film Diabolik impara ad amare, incontrando Eva. Questa era la storia del precedente capitolo, in cui un essere disumano e glaciale come Diabolik incontra questa donna totalmente complementare a lui che gli insegna l’amore, e nel secondo Giacomo (Gianniotti) gli ha dato quell’anima che c’era bisogno che in questa storia ci fosse. Per cui questo è un Diabolik che ama e che si contrappone alla coppia di Ginko e Altea, che si amano tantissimo, ma che schiavi dell’immagine, delle regole della società, non possono esprimere il loro amore con la stessa libertà di Diabolik ed Eva” conviene ancora Marco Manetti.

É pertanto interessante vedere sullo schermo l’evoluzione di personaggi appartenenti ad un’epoca differente, con caratteristiche chiaramente anacronistiche rispetto ad oggi, ma in un qualche modo sempre impregnati di universalità, in cui ci si può sempre, almeno in parte, rispecchiare (speriamo non quella della propensione alle rapine e le uccisioni, chiaramente).

Diabolik – Ginko all’attacco! non sarà forse una delle visioni più scorrevoli che potreste trovare in circolazione, dunque, ma oggi più che mai non sbaglieremmo nel dire che è estremamente importante dare una chance a questo titolo, perché al di là di quelli che possono essere i suoi difetti (percepiti o effettivi), rappresenta comunque un grande passo avanti nella produzione cinematografica italiana.

Se vogliamo che il cinema nostrano progredisca, se vogliamo che osi di più, che non ci offra solo cinepattoni e simili (i quali, nonostante tutto, non si possono privare dei loro meriti), se vogliamo pensare in grande e fare altrettanto, non si dovrebbero ignorare produzioni come Il Primo Re o lo stesso Diabolik – per prendere come riferimento due diversissimi prodotti del cosidetto cinema di genere di fattura italiana – e ovviamente sarebbe augurabile non ignorare il secondo e il terzo film (quest’ultimo già girato e prossimanente in arrivo) dedicati al ladro dagli occhi di ghiaccio.

Poi, naturalmente, ognuno fa quel che vuole, ci mancherebbe. Ma andare al cinema è difficilmente una cattiva idea, non trovate?

Diabolik – Ginko all’attacco! è dal 17 novembre al cinema grazie a 01 Distribution.

Laura Silvestri

Info

Titolo Originale: Diabolik - Ginko all'attacco!

Durata: 111'

Data D'Uscita: 17 novembre 2022

Regia: Manetti Bros.

Con: 

Giacomo Gianniotti, Miriam Leone,
Valerio Mastrandea, Monica Bellucci,
Alessio Lapice, Linda Caridi

Distribuzione: 01 Distribution

Materiali Stampa: 01 Distribution  

Thor: Love and Thunder – Amore, dolore, avventure (e capre urlanti) nel nuovo film Marvel con Chris Hemsworth e Natalie Portman

Chris Hemsworth e Natalie Portman sono le incarnazioni del Dio del Tuono nel nuovo film del MCU diretto da Taika Waititi, Thor: Love and Thunder, che vede anche il ritorno di Tessa Thompson nel ruolo di Valkyrie e il debutto di Christian Bale nei panni di Gorr il Macellatore di Dei.

Con tutto quello che sta succedendo nel Marvel Cinematic Universe, era da un po’ che non davamo un’occhiata a quello che sta combinando il Dio del Tuono, ma grazie al quarto capitolo della saga, Thor: Love and Thunder, ci troviamo di fronte a una miriade di Dei e non uno, ma ben due Thor, e ragazzi, se non hanno avuto da fare anche loro!

Mentre un semplice ma efficace incidente scatenante mette in moto la storia – Gorr il Macellatore di Dei, il riuscitissimo villain interpretato da Christian Bale (con cui sarà particolarmente difficile non empatizzare, almeno in parte), tiene fede al suo nome e ci mostra come è diventato tale facendo strage di ogni divinità che incontra sulla sua strada -, il film si incarica di spogliare (anche letteralmente, come avete visto dai trailer) i suoi protagonisti, con un Thor (Chris Hemsworth) che rifugge dai sentimenti per paura di restare nuovamente ferito e solo, e una Jane Foster (Natalie Portman) alle prese con una delle battaglie più difficili che la vita possa riservare, una malattia che sfugge al controllo umano.

Jane sta affrontando una sfida estremamente ardua e terrificante. E il suo modo di farlo è cercare di mantenere una certa agency, un minimo di capacità d’azione su qualcosa che è in realtà al di fuori del suo controllo” spiega Natalie Portman durante la conferenza stampa italiana di Thor: Love and Thunder, e ringrazia di cuore Taika Waititi, Kevin Feige e il resto della produzione per aver riportato sullo schermo “una donna ebrea, quarantenne alta un metro e sessanta, madre di due figli” per interpretare ancora questo personaggio così sfaccettato, e di averle dato l’opportunità di vestire i panni di una supereroina.

Supereroina che, seppur alle prime armi, non se la cava certo male contro la minaccia rappresentata da Gorr, e che non sfigura affatto di fianco ai già rodati Thor di Hemsworth e Valkyrie (Tessa Thompson) e all’esilarante Korg (Waititi) che non manca mai di lasciare il segno. Da un punto di vista narrativo, sono loro gli agganci emotivi del film, ma c’è spazio anche per diverse comparse (tornano Matt Damon, Sam Neill e Luke Hemsworth con i cameo che potreste ormai aspettarvi da loro, ma anche altre star più o meno annunciate, a partire dallo Zeus di Russell Crowe) che a seconda dei casi si ritrovano (quasi) a rubare la scena.

Sul piano formale e contenutisco Thor: Love and Thunder si dimostra un degno e coerente erede di Thor: Ragnarok – molto più di altri sequel nei confronti dei propri predecessori – pur lasciando spazio a nuovi spunti in entrambi i campi (noterete, ad esempio, delle trovate cromatiche alquanto ficcanti, per le quali bisogna ringraziare anche il direttore della fotografia Barry Baz Idoine).

Sperimenta ancora, Taika Waititi – anche co-autore della sceneggiatura assieme a Jennifer Kaytin Robinson -, si diverte a mischiare elementi visivi, musiche e tematiche, portandoci in giro per l’universo in un una fiaba cosmica, un viaggio all’insegna della ricerca d’identità, del superamento del dolore e, soprattutto, dell’amore, ma sempre con quella caratteristica ironia che contraddistingue le pellicole Marvel, e in particolare quelle targate proprio Taika Waititi.

Un’ironia gentile, mai a discapito di qualcun altro, osserva Portman: “Il suo è quel tipo di humor che richiede più intelligenza, perché è davvero difficile essere così divertenti e in modo così bizzarro, ma mantenendo sempre delle emozioni incredibilmente genuine e una tale generosità“. Chi, d’altronde, riuscirebbe a riprendere degli elementi mitologici e consegnarceli in una veste tanto inaspettata quanto esilarante – sì, parliamo (anche) delle capre urlanti che anticipavamo nel titolo -?

Che poi si siano divertiti tutti un mondo a girare Thor: Love and Thunder, è qualcosa di evidente in ogni momento del film, e le parole dell’attrice Premio Oscar arrivano solo a ribadire tale concetto: “Girare questa pellicola è stato un grande promemoria di quanto il nostro lavoro si basi sul gioco e sull’immaginazione. […] Per me ciò che vedete sullo schermo è stato frutto di una combinazione di preparazione e lasciarsi andare” afferma, aggiungendo che, come d’altronde accaduto con Ragnarok, anche qui molto è stato ottenuto grazie all’improvvisazione, una pratica più che incoraggiata da Waititi sui suoi set (“Taika è sempre alla ricerca di qualcosa di diverso in ogni scena“).

E chissà se anche il pubblico si divertirà un mondo a guardare le nuove avventure di Thor, anzi, dei Thor…

Thor: Love and Thunder è già al cinema (e ricordatevi, come sempre, di rimanere anche durante e dopo i titoli di coda!).

Laura Silvestri

Info

Titolo Originale: Thor: Love and Thunder

Durata: 119'

Data D'Uscita: 6 luglio 2022

Regia: Taika Waititi

Con: 

Chris Hemsworth, Natalie Portman, 
Christian Bale, Tessa Thompson 

Distribuzione: Disney

Materiali Stampa: Disney 

Gli Uomini D’Oro – La Recensione

Non è tutto oro quello che luccica

Tre uomini che più diversi tra loro non potreste trovarne; tre motivazioni differenti; tutti uniti dal destino e dalla voglia di cambiare la propria vita. Luigi (Giampaolo Morelli), Alvise (Fabio De Luigi) e Il Lupo (Edoardo Leo) tenteranno il colpo del secolo, almeno per loro, ma non tutto andrà come sperato… 

Ispirato da una storia vera, Gli Uomini D’Oro è ambientato a Torino, nel 1996, e gioca sulle insoddisfazioni della vita per regalarci un film difficile da categorizzare – ma, come dice anche il regista, Vittorio Alfieri, «Il sogno della mia vita è che un giorno la gente non debba chiedersi che [genere di] film sto facendo» – , con accenni di Heist Movie, Crime, Noir, Dramma e anche un po’ di Commedia, dando vita a un prodotto dalla forma e dalla sostanza davvero inaspettato.

Un playboy, un uomo di famiglia e un ex-pugile entrano in un bar… Sembra l’incipit di una barzelletta, e invece è fondamentalmente la situazione in cui ci ritroviamo verso metà film, e a cui arriveremo man mano che gli eventi sullo schermo avranno luogo, raccontate da tre punti di vista differenti, quelli, appunto, dei tre protagonisti. Il gruppetto che si è formato così, un po’ per caso, a causa delle circostanze, non è nemmeno un vero gruppo: ognuno di loro ha in mente un obiettivo, una vita migliore a cui aspira, con delle motivazioni del tutto differenti dagli altri. Stremati dalla dura realtà, Luigi e Alvise ideano un piano per impadronirsi dei soldi che normalmente trasportano con il furgone portavalori di cui sono incaricati. Al colpo partecipano anche, con ruoli e rilevanza diversa, Luciano (Giuseppe Ragone) e Gina (Mariela Garriga), mentre ne rimangono all’oscuro la moglie di Alvise, Bruna (Susy Laude), e la ragazza frequentata da Luigi, Anna (Matilde Gioli).

Colpo che occuperà una buona metà della pellicola, mentre per il resto del lungometraggio avremo a che fare con le sue conseguenze, oltre che ai diversi approcci forniti dal triplice sguardo all’intera vicenda.

Più serio di quanto ci si possa immaginare, il racconto messo in atto da Alfieri e dallo stuolo di attori a disposizione, che qui si cimentano in dei ruoli che i più potrebbero ritenere anticonvenzionali, basandosi su i personaggi che hanno finora portato sullo schermo (De Luigi, in particolare, sembra aver stupito particolarmente il pubblico in sala per la sua intensità drammatica, specialmente vista la sua attitudine per la commedia), Gli Uomini D’Oro insiste in 110 minuti di coinvolgente cinema, né troppo scontato (anzi, difficilmente prevedibile in fatto di impostazione e risoluzione), né troppo “impastato”. La commistione di generi può provocare un leggero stracciamento in fase iniziale, ma funziona, e permette un diverso aggancio a quelli che sono desideri, problematiche, idiosincrasie, timori e aspirazioni comuni a tutti.

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Bravo dunque il trio protagonista, buona performance anche da parte del cast di supporto, con le donne “di casa” – si fa per dire – che muovono i tasselli giusti (sbagliati) al momento giusto (sbagliato), per far sì che la storia finisca come deve finire… In un qualche modo.

Troverete Gli Uomi D’Oro dal 7 novembre al cinema.

Laura Silvestri

Info 

Titolo: Gli Uomini D'Oro

Durata: 110'

Data di Uscita: 7 novembre

Regia: Vincenzo Alfieri 

Con:

Fabio De Luigi, Edoardo Leo,

Giampaolo Morelli, Giuseppe Ragone, 

Mariela Garriga, Matilde Gioli, 

Susy Laude, Gian Marco Tognazzi

Distribuzione: 01 Distribution

Attraverso i Miei Occhi – La Recensione 

“Sii la persona che il tuo cane crede tu sia” 

Denny è un aspirante automobilista di formula 1, che da’ il massimo per raggiungere risultati soddisfacenti anche facendo grandi sacrifici; si troverà a dover affrontare sacrifici ancor più grandi quando con la sua amata Eve formerà una famiglia… per fortuna c’è il suo cane, Enzo!

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Diciamocelo molto chiaramente: questo è l’anno in cui gli schermi cinematografici sembrano essere ossessionati da narrazioni il cui punto fondamentale si rivela essere lo sguardo verso il passato, con gli occhi di chi è giunto al tramonto della vita, dall’alto di tutte le consapevolezze assimilate nel corso del tempo.

In questo caso il protagonista è nientemeno che un cane, Enzo (doppiato in origine da Kevin Costner, mentre nella versione italiana troviamo Gigi Proietti), che viene adottato da cucciolo, come per volere del destino, da Denny Swift (Milo Ventimiglia), un automobilista in cerca della gara giusta che gli permetta di sfondare nei grossi circuiti (e, come da subito si intuisce, il nome del cane richiama proprio quello di Enzo Ferrari, grandissima ispirazione per lui).

Le cose potrebbero leggermente complicarsi quando nella loro vita entra Eve (Amanda Seyfried); inizialmente, Enzo dimostra un po’ di gelosia nei confronti della “nuova arrivata”, ma arriveranno presto a comporre un vero e proprio nucleo familiare, rafforzato dalla nascita della loro figlioletta, Zoe. Il cane stesso ci narrerà, attraverso i suoi pensieri fuori campo, il suo vissuto, di conseguenza narrandoci quello di Denny, costellato tanto da gioie quanto da occasioni sprecate e decisioni dolorose e sofferte.

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La pellicola è ispirata al romanzo di Garth Stein, best seller del New York Times per ben 40 settimane, “L’arte di correre sotto la pioggia”; correre sotto la pioggia è davvero un’arte a tutti gli effetti e – come Denny insegna – un’arte in cui l’elemento fondamentale è tenere gli occhi sempre oltre la prossima curva, oltre le difficoltà, ed imparare a crearsi “le proprie condizioni”.  

Purtroppo, a non convincere più di tanto è proprio il fatto che le massime di vita del quale il film è imbevuto provengano tutte quante dal voice over del cagnolone di casa: ammette di non saper parlare, ma quello che percepisce lo spettatore è un intelletto fin troppo acuto, un lessico fin troppo forbito, e la pellicola combatte con il rischio di perdere la forza narrativa.

In definitiva, Attraverso i miei occhi può ritenersi una commedia dai toni drammatici abbastanza pregevole, pur nei suoi limiti, leggera e farcita di buoni sentimenti, ma tutt’altro che sciocca; utilizzando a livello metaforico i concetti relativi alle corse automobilistiche, cerca di porre riflessioni sul rimanere sempre concentrati verso i propri obiettivi, sulla fedeltà e sul valore del bene incondizionato e disinteressato.

Conferenza con Gigi Proietti

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Alla conferenza stampa, Gigi Proietti, ci racconta del valore metaforico di questo film, nel quale presta la voce al cane protagonista, il suo rapporto con gli animali (compresi esilaranti aneddoti tra piccioni e merli indiani), con le automobili e dice la sua sull’industria cinematografica odierna.

«Un film metaforico, anche se così commovente. Una metafora che fa capire come sarebbero più facili i rapporti, come in questo tra Enzo e il padrone, in cui c’è soltanto lealtà e fedeltà., la voglia che il proprio amico stia bene, perché bene significa volere per davvero il bene dell’altro»

Scegliendo Proietti hanno dato alla narrazione di questo particolare punto di vista (il cane che per forza di cose non può esprimersi verbalmente), con la sua voce, tutta la saggezza di chi inizia il suo racconto da anziano; lo stesso dichiara però di non sentirsi veramente sicuro di avere questa saggezza: «sarebbe bello se ce l’avessi». 

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Non ci si aspetta che, ad un certo punto, siano i nonni a diventare antagonisti della storia: «è un film indubbiamente originale, come anche il fatto che si parta dalla fine». 

Parlando di doppiaggio: «ci sono state delle grandi voci italiane che, risentendo poi l’attore americano non doppiato, in originale, rimani deluso».

«Io amo molto gli animali”, racconta in seguito, “addirittura ho avuto un piccione! Un piccione che mia moglie comprò a Ponza… lo portammo a Roma, ma non volava! l’abbiamo chiamato Porototo. E si comportava proprio come un cane!».

Per quanto riguarda il rapporto con le automobili e con la velocità: «Zero! Non sono un patito di automobili, lo sanno tutti. Mi avevano regalato, una volta, un SUV! Mi sembrò di essere l’autista di un pullman, a Roma un SUV è come una bestemmia! ‘Ndo lo metti? E allora l’ho dato via… non ho la passione per le macchine, onestamente».

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Oggi il cinema è sicuramente in un momento di forte trasformazione: «il cinema , oggi si sta televisivizzando. un film rimane in sala solo pochi giorni. Il cinema italiano, tolta qualche eccezione, ha sempre storie un po’ piccole, a volte fatte anche bene… ci sono dei buoni attori! Ma per le storie, ti accorgi che un film di un’ora e mezza potrebbe benissimo durare solo tre quarti d’ora».

La conferenza si conclude, poi, con una tragicomica rivelazione sul destino del “piccione domestico”, che non può non strappare un’ultima risata e un ultimo applauso di congedo.

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Attraverso I Miei Occhi sarà dal 7 novembre al cinema.

Cristiana Carta

Info

Titolo Originale: The Art of Racing in the Rain

Durata: 108’

Data di Uscita: 7 novembre 2019

Regia: Simon Curtis 

Con: 

Amanda Seyfried, Kevin Costner (voce), 

Milo Ventimiglia, Kathy Baker

Distribuzione: 20th Century Fox
Materiali Stampa: 20th Century Fox, Google Immagini

C’Era Una Volta A… Hollywood – Il Racconto Della Conferenza Stampa

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Estate 2019.

Roma, 3 Agosto. È un sabato caldo e assolato. Nei pressi del Cinema Adriano, in Piazza Cavour, sono ancora visibili i postumi della Premiére di un film Hollywoodiano, uno di quelli che si è disposti a stare lì ad aspettare già dalla mattina, sotto il sole cocente, fino alla sera, sotto alla pioggia estiva, fugace ma battente.

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Un po’ come era andata il giorno prima, quando centinaia di persone hanno condiviso per ore un posto dietro le transenne per poter avere la propria, piccola (si fa per dire) Hollywood personale, e hanno atteso l’arrivo di alcuni dei più grandi nomi del cinema mondiale, venuti qui nella Capitale per presentare il loro ultimo sogno su pellicola: C’Era Una Volta A… Hollywood, in uscita il 18 settembre nelle sale italiane.

E di sogno si tratta se, pubblico o stampa, davanti a sé ci si ritrova poi un gruppetto formato da Quentin Tarantino, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie, David Heyman e Shannon McIntosh.

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E così, verso mezzogiorno e mezzo del penultimo dì della settimana, ecco regista, attori e produttori prendere posto dietro i microfoni per quella che sarà la conferenza stampa romana del film.

Prime domande della giornata rivolte ai due produttori della pellicola, Shannon McIntosh, già collaboratrice di Tarantino in altre occasioni, e David Heyman, celebre produttore delle saghe del Wizarding World (Harry Potter, Animali Fantastici).

Parte la McIntosh, in riferimento al rapporto regista-produttori: «È un viaggio fantastico. Ogni volta che ti propone qualcosa da leggere, ti fornisce uno script alto tanto [mostra quanto con le mani], lo leggi, e sai già che sei pronto a imbarcarti per la tua prossima avventura. Lui  ti mette davanti sempre a tanta avventura e divertimento, così quando leggi la sceneggiatura non puoi che pensare “Ma come faremo tutto questo?”. Allora provi a estrapolare ogni parola, inizi a cercare le location, a immaginare come fare affinché la sua visione si concretizzi e la magia possa divenire realtà. È un’esperienza magnifica».

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Anche a David Heyman, che di portare la magia sullo schermo decisamente se ne intende, viene chiesto di condividere la propria esperienza al fianco del regista. «Privilegio, è la prima parola che mi viene in mente per descriverla. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei registi meravigliosi nel corso della mia carriera, ma questa è stata davvero un’esperienza unica. Quentin è un maestro della regia: ha il controllo di ogni singolo aspetto della produzione; quando leggi i suoi script, sono così dettagliati, che è come se avessi le scene davanti agli occhi. E poi le vedi davvero prendere vita con questa incredibile famiglia, davanti e dietro la cinepresa. La sua attenzione per i particolari, la sua inventiva senza fine, e allo stesso tempo la facilità con cui crea un’atmosfera di eccitazione, di possibilità e inclusività… Ho lavorato con molti registi che creano attraverso il dolore, ma Quentin crea attraverso il piacere. È stata davvero una delle più belle esperienze della mia carriera».

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Il microfono passa a uno dei protagonisti del lungometraggio, Leonardo DiCaprio, che sullo schermo veste i panni di Rick Dalton, grande nome della Hollywood anni ’60 dipinta nel pittoresco mondo creato da Tarantino. Ma come è stato interpretare questo personaggio che si trova in un momento della sua carriera che non è dei più alti? «Prima di tutto, la sceneggiatura di Quentin è stata assolutamente brillante nel dar vita a questi due personaggi e al rapporto tra di loro; uno stuntman e un attore che osservano dalla periferia di Hollywood, che guardano questa cultura, questa industria che sta cambiando, e cercano allo stesso tempo di sopravvivere al suo interno» racconta l’attore Premio Oscar «Ma quello che era più interessante del suo approccio è che si trattava di uno scorcio di vita, un paio di giorni. E credo che una delle conversazioni iniziali tra me e Quentin fosse tutta sul come fare per ritrarre l’anima di questo personaggio in un così stretto lasso di tempo. E molto aveva a che fare con il mio personaggio [Rick Dalton] alle prese con un ruolo in uno show a cui non voleva esattamente prender parte, un ruolo da villain, sentendosi come se fosse stato messo lì per facilitare il lancio della nuova generazione di attori, mentre lui veniva lasciato indietro. Così il nostro processo creativo si è incentrato sul cercare di realizzare quei momenti, quei dettagli che avrebbero potuto dare davvero al pubblico quel pathos, l’essenza di quest’uomo. E questo ha dato vita a tutti quei pezzetti in cui si impiccia con le battute, dà di matto nei camerini… E questa idea che il personaggio potrebbe essere bipolare, e che possa soffrire d’ansia, per via del fatto che alla fine è un essere mortale, e che la cultura e l’industria stanno andando avanti, nonostante tutto».

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Ma che effetto fa ritrovarsi all’interno di serie e film che hanno segnato un’epoca e ora non ci sono più? «Uno dei privilegi dell’essere un attore è quello di essere esposti non solo ad argomenti che padroneggi e con cui hai una grande familiarità. Come penso sappiate tutti, Quentin è un vero e proprio cinefilo. Ma non è solo questo, lui sa anche tantissime cose sulla televisione e sulla musica, quindi ho avuto l’opportunità di essere esposto a un’era, quella degli anni ’50 e ’60, piena di serie e film pulp sui cowboy, film che non avrei probabilmente visto, ma lui ha un tale rispetto per queste pellicole, lo stesso che abbiamo tutti nei confronti di quelli che consideriamo dei capolavori. E abbiamo preso ispirazione da diversi attori per questa parte, ma ce ne è stato uno in particolare, Ralph Meeker, ed è stato fantastico vedere il rispetto di Quentin per questo attore che io non conoscevo bene, e che molte persone probabilmente non ricordano bene. Ma abbiamo guardato alla sua carriera, alla sua filmografia, con il rispetto e la voglia di scoprire come qualcosa del genere sia stato poi dimenticato nel tempo, e quale sia stata la base di quel declino creativo. E potrà anche non aver avuto tutti i ruoli che desiderava, ma ha comunque dato il suo contributo al cinema e alla televisione. Che è qualcosa che lui stesso potrebbe non aver realizzato».

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E a che punto del suo percorso professionale pensa di essere Leonardo? «Sono cresciuto guardando film, e non penso che riuscirei ad ottenere quello che sono stati in grado di ottenere i miei eroi. Perciò cerco continuamente di migliorarmi, di lavorare a film sempre migliori, di interpretare personaggi migliori, di fare tutto ciò che in mio potere per cercare di raggiungerli, perché loro hanno fatto così tanto, e non credo di potermi mai sentire alla loro altezza».

 

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Che effetto fa vedere delle storie così lontane nel tempo, come quelle storie che sono state riportate in vita in C’Era Una Volta A… Hollywood? La domanda è rivolta al trio DiCaprio-Tarantino-Robbie, ed è proprio quest’ultima a rispondere per prima: «Credo di essere grata, per alcuni versi, di lavorare nell’era attuale, perché ci sono così tanti ruoli femminili, ultimamente, che sono davvero entusiasmanti e degni di nota. Ma non è che non esistessero a quei tempi… forse erano più scioccanti e innovativi, all’epoca. Guardando film degli anni ’50 e ’60, ne ho visti così tanti che adoro, e so che Hollywood è cambiata parecchio da allora, specialmente dal periodo in cui è ambientato il nostro film; il momento di passaggio vero e proprio c’è stato tra il ’65 e il ’69, che ha poi spianato la strada agli anni ’70. E credo che al momento Hollywood stia seguendo un percorso simile, stiamo vivendo un nuovo passaggio verso un tipo di contenuti differenti ed entusiasmanti».

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La parola passa poi a Tarantino, che afferma: «Alcuni dei film di cui abbiamo parlato nella nostra pellicola, li ho visti tra il ’69 e i primi anni ’70, perché sapete, prima potevano restare anche un anno al cinema. Nel caso di The Wrecking Crew, l’ho visto quando uscì, credo avessi 6 anni, ed è interessate, ricordo che avevo già visto i film di Dean Martin e Jerry Lewis, ero un fan, erano tra le celebrità più famose al mondo. Ma sono stato assolutamente rapito da Sharon Tate in quel film. Se lo avete visto [il film], è una performance davvero divertente, perché interpreta questo agente segreto un po’ maldestro. E lei aveva un dono, era portata per questo genere [la commedia], ed era davvero divertente vederla eseguire queste acrobazie alla maniera delle slapstick comedy. A 6 anni, la slapstick comedy è probabilmente il tuo genere preferito, e ti vedi questa ragazza carina che inciampa di qua e di là, senza però perdere mai il suo aplomb. Era assolutamente affascinante, mi ha completamente rapito, e il film ha queste gag fantastiche, soprattutto nel finale… Ha davvero fatto colpo sull’audience. Ricordo di averlo visto al Garfield Theater di San Gabriel, e ha davvero fatto scoppiare fragorose risate e applausi in sala» e poi aggiunge «Tra l’atro, cosa che credo sia parte dell’ispirazione per la scena di Margot al cinema, quando il film è uscito in sala, ho fatto la stessa cosa che ha fatto lei [in C’Era Una Volta A… Hollywood]: stranamente il cinema in cui ero in quel giorno aveva un patio simile a quello del Bruin, e quando sono uscito dalla sala con i miei genitori, sono andato vicino al poster del film per vedere chi fosse quell’attrice. Ho guardato le insegne, le stesse che ho usato anche io nel film, e ho chiesto “Chi è Miss Carlson?” e mi è stato risposto “Sharon Tate” al che ho commentato “Forte, sembra una a posto”. Per quanto potesse sembrarmi a posto un adulto all’età di sei anni. Ora, credo che The Wrecking Crew sia un bel film, anche se un po’ assurdo, e io sono un grande fan del regista, Phil Karlson, ma quella pellicola in particolare credo sia un pochino ridicola… Ma lei era così affascinante e brava! E mi è piaciuta l’idea di mostrare la clip originale del film, dove lei e Nancy Kwan hanno questo scontro coreografato da Bruce Lee. Credo sia davvero divertente».

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Infine è DiCaprio a dire la sua sul “throwback”: «Penso fosse affascinante, perché sapete, ho pensato al 1969, e come mai questo film sia ambientato proprio in questo periodo. Così ho cercato su google tutto quello che è accaduto a livello culturale in quell’anno, tutti i film che sono usciti, ed è davvero un punto di svolta letterale nella storia americana e in quella del cinema americano; credo abbia spianato la strada ai nostri eroi. Era l’era dei registi, quando il potere di rendere un film tra i più memorabili era in mano loro. È stato davvero un punto di svolta culturale».

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Il successo riscontrato oltreoceano di C’Era Una Volta A… Hollywood ha a che fare, secondo Tarantino, con l’effetto nostalgia? «Beh, credo che in realtà sia una combinazione di cose. È un soggetto interessante, e non ci sono altri film quest’anno che affrontano l’argomento e possono definirsi simili, quindi ha il beneficio di potersi dire unico. Penso che molto si debba anche al cast, la gente è davvero entusiasta di poter vedere questi attori nel film. E poi, credo che sia stato fatto un buon lavoro con la pubblicità, sembra un film di grande intrattenimento, un buon modo per passare una serata. Le recensioni, almeno in parte, hanno contribuito a confermare la tesi, quindi sì, direi una combinazione di tutte queste cose».

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Come nasce la passione del regista per i film di un certo tipo di produzione nostrana, come i B-Movie e i Western all’italiana? «Sono un fan dei film di genere in generale, e sono un fan di quelli che voi chiamate B-Movie. Mi piace molto la prospettiva italiana sui film di genere, che si tratti di Spaghetti Western, Macaroni Combat, Gialli,  Peplum… In realtà i Peplum non mi fanno impazzire tanto quanto il resto, ma ad esempio adoro le Sex Comedy all’italiana. Una delle cose che più mi affascinano di questi generi, in particolare degli Spaghetti Western, dei Gialli e dei Polizieschi è che sono il loro punto di partenza sono stati i policier francesi oppure i western americani anni ’50, ma poi li hanno reinventati. Proprio l’idea di prendere un vecchio genere e trovare un nuovo modo di raccontarli, a un nuovo pubblico e con un’enfasi diversa mi entusiasma tantissimo. Adoro come siano riusciti a fare una cosa simile. È un modo per aggiungere nuove sfumature al genere, e in particolare nel caso degli Spaghetti Western, quei registi come Leone, Corbucci, Sollima, Tessari… Quasi tutti loro hanno iniziato come critici cinematografici, per poi diventare sceneggiatori e passare alla seconda unità. Loro erano assolutamente appassionati e innamorati del cinema come lo erano gli artisti della Nouvelle Vague francese che ebbero un simile percorso. E il loro estremo entusiasmo per il genere è semplicemente delizioso. E anche, quello che per me li rende ancora più italiani, è l’impegno nei confronti dell’opera: il modo in cui presentano il prodotto è più grande, fuori dall’ordinario, come per le colonne sonore, adoro questo modo di fare operistico, così esagerato. Il primo libro che ho letto sugli Spaghetti Western è stato nel ’79, ed era un libro pubblicato in Inghilterra intitolato Spaghetti Western: L’Opera Della Violenza. E credo di stare cercando di realizzare la mia opera della violenza ormai da una vita!».

Ma dopo Bastardi Senza Gloria e C’Era Una Volta A… Hollywood, c’è una terza riscrittura tarantiniana della storia in programma? «In realtà credo che sia questa la terza riscrittura tarantiniana. Bastardi è stata la prima, Django la seconda, e questa è la terza nella mia personale “trilogia”».

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A un certo punto Enrico Magrelli, il moderatore dell’incontro, nel porre una domanda a Margot, decide di rendere noto agli ospiti il titolo italiano di The Wrecking Crew, ovvero Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, provocando le sonore e incontrollate risa di Tarantino, che una volta ricominciato a respirare ha affermato: «Voi italiani e questi titoli! The Inglorious Bastards (di Castellari) lo avete tradotto Quel Maledetto Treno Blindato… Perché???»

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Ad ogni modo, la Robbie racconta poi, come richiesto da Magrelli, l’esperienza sul set il giorno della già più volte citata scena al cinema: «Il giorno in cui abbiamo girato la scena, Quentin mi raccontò che a lui capitò una cosa simile una volta in un cinema che dava True Romance, e che allora di getto pensò “Beh, ho scritto io il film, posso entrare gratis?”. Ed era una storia così dolce. E credo che molte delle cose di questo film, questi piccoli ricordi di Quentin inseriti nella narrazione, rendano tutto ancora più specifico, intimo e speciale. Io non c’ero ancora nel ’69, ma Quentin sì, e quando ho letto la sceneggiatura, mi sono sentita trasportata in quegli anni, era come se stessi leggendo dal suo punto di vista come fosse vivere a quel tempo, e ha reso tutto più speciale. Cosa c’era in radio in quel periodo? Quali canzoni si sentivano? Cosa trovavi per strada viaggiando in macchina, cosa avresti visto passando? Questo livello di specificità è davvero un dono. Non dovevi nemmeno immaginarti altro oltre a quello che aveva detto Quentin. E anche sul set… Lui non si affida alla CGI, ed essere su un set del genere di questi tempi è davvero raro. In alcuni casi sei circondato da green screen, e il resto verrà aggiunto in un secondo momento. Non so dire quale gioia è stata non solo prendere parte a quella scena in particolare, essere davvero al Bruin, e sapere che anche Quentin ebbe un’esperienza simile, ma proprio essere nella Hollywood del ’69, perché è così che ci si sentiva. È stata una delle gioie più grandi della mia carriera, e non so se riuscirò a provare lo stesso in un’altra occasione».

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Quanto la Hollywood di oggi è diversa da allora? E il cinema può davvero mutare la realtà? Risponde Tarantino: «Per me il cinema è così diverso da quando iniziai io negli anni ’90, figurarsi rispetto al 1969! Una cosa la dirò però. Ogni volta che mi fanno una domanda, vorrei dire così tante cose che ho in mente, che di solito vado con la prima che mi viene. Questa volta è un po’ come ha detto anche Margot: ai vecchi tempi, come forse li possiamo chiamare, ma anche negli anni ’90, la gente costruiva ancora i set. Non era solo materiale aggiunto dopo. Mi piace vedere film come Life Force di Tobe Hooper, in cui c’erano questi magnifici set situati in enormi magazzini dove ricreavano completamente questi nuovi mondi. E non sembravano poco verosimili. Guardavo Cutthroat Island di Remy Harlin, ed era già di per sé un  buon film, ma dal punto di vista della scenografia era davvero fantastico; avevano costruito questo villaggio intero, e c’era questa sequenza d’azione che potevano fare solo in quel modo. Non c’era CGI, è costata una fortuna, ed è tutto lì, sullo schermo. E adesso anche i film con un budget davvero grosso non hanno tempo per queste “cavolate”.  E credo semplicemente che qualcosa sia andato terribilmente perduto. E questa terribile perdita riguarda l’effetto visivo, il film e soprattutto la fattura. E credo che questo rappresenti un pericolo [per la cinematografia]. Una delle cose che meno gradisco di questa digitalizzazione non è solo il fatto che, da vecchiaccio brontolone quale sono preferisco la pellicola al digitale, ma è tutto quel processo artigianale che c’è dietro ogni stadio del voler catturare l’immagine in un certo modo. È facile ricorrere al digitale, è facile anche quando si pianifica soltanto di ricorrerci, perché il video ti dà una vasta scelta e una maggiore libertà d’azione. Ma se hai qualcuno come Bob Richardson [direttore della fotografia di Tarantino], lui ha catturato l’immagine così bene che, una volta passato per tre processi di duplicazione, il film che avete al cinema è assolutamente fantastico. Molti non sanno come fare una cosa del genere, ed è ciò che distingue quelli veramente bravi dagli altri. Le persone che sanno prendere la pellicola e lavorarla fino a che quello che viene mostrato sullo schermo non risplenda di luce propria. E questa è la fattura artigianale, e si sta sempre più estinguendo, ragazzi. Non so se il cinema può cambiare la storia, ma so che può influenzarla».

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È ancora Magrelli a chiedere, questa volta a Leonardo, come ci si sente nel diventare l’attore di riferimento di un regista, e quali sono le responsabilità crede di avere in quanto tale. «Credo che se la mettessi in termini di responsabilità sarebbe un po’ intimidatorio. In tutta onestà, sono cresciuto come fan dei film e del cinema. A ogni attore che mi chiede consigli per farcela in questa industria, la prima cosa che dico è “Guardate più film che potete. Trovate i vostri eroi. Trovate qualcuno o qualcosa che vi influenzi. Create la vostra identità… Abbiamo dei giganti come predecessori. E come dicevamo prima, magari guardate indietro a quanto fatto in passato, che so, negli anni ’20”. Parlando di set, ti trovavi davanti questi set che sembrava veramente di essere nel Selvaggio West. Il numero di persone che si riuniva per creare qualcosa di nuovo a livello visivo… Abbiamo tutta questa storia a cui guardare, e ci sono così tanti generi e così tanti periodi nella storia del cinema che possono influenzarci. Di solito quello che mi domando è piuttosto “Con chi voglio lavorare che riuscirà a pormi in una situazione tale che io possa dare il meglio di me? Chi sarà in grado di dare vita a quella sceneggiatura che ho letto? È un mezzo che è fatto per i registi, noi vediamo il cinema attraverso gli occhi del regista, quindi chi di loro sarà in grado di far risaltare al meglio la performance dell’attore, la sceneggiatura, e dare all’audience quella sensazione rara di poter davvero creare una connessione con quello che accade sullo schermo? È un dono raro. Quindi sì, per me fa tanto il regista, ed è ciò che cerco di solito».

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E dopo la risposta all’ultima domanda e un «Grazie! Grazie a voi, è una delle conferenze più appassionate a cui io abbia mai preso parte» da parte di Tarantino, ci accingiamo a salutare i monumentali artisti che ci hanno accompagnato, almeno per un po’, in questo viaggio attraverso Hollywood, il cinema e la sua storia.

Laura Silvestri

Foto: Laura Silvestri
Materiali Stampa: Sony Pictures

X-Men: Dark Phoenix – La Recensione

Dalle Ceneri, Risorge

Durante una missione nello spazio, Jean viene travolta da una misteriosa energia che troverà dimora all’interno del suo corpo, rendendola estremamente  potente, ma anche altrettanto pericolosa. L’incolumità di Jean, dei suoi compagni e del resto della popolazione è a rischio, e tocca agli X-Men trovare una soluzione… Se c’è. 

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Come l’araba fenice che risorge dalle sue ceneri, così accade per la saga degli X-Men. Sia per quanto riguarda la trilogia originale, sia per quanto concerne quella prequel, il terzo capitolo – rispettivamente X-Men: Conflitto Finale e X-Men Apocalypse – è stato quello meno apprezzato da pubblico e critica (a ragione). Ma, fortunatamente, X-Men: Dark Phoenix è qui per chiudere con onore l’era X-Men/Fox.

Le premesse non sembravano essere delle migliori, dati i reshoot e i continui cambi di data d’uscita del film, ma ora possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo.

La pellicola diretta da Simon Kinberg ritrova infatti quel tepore caratteristico di First Class e Giorni Di Un Futuro Passato, lo stesso che ci ha fatto affezionare ai personaggi in quelle istanze – come anche nel primo X-Men – e che è stato registrato come quasi totalmente assente in Apocalypseassicurandoci l’accesso emotivo alle vicende narrate.

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«Adoro questi personaggi. Sono cresciuto leggendo le loro storie nei fumetti» afferma Kinberg, finora solo sceneggiatore e produttore dei film sui mutanti «La transizione che mi ha portato sulla sedia da regista per me è stata molto fluida, principalmente grazie a questi ragazzi fantastici con cui ho avuto il piacere di lavorare. […] È come se stessi lavorando con la mia famiglia» racconta il regista in collegamento streaming. E si nota la sintonia con l’ambiente circostante e la storia in un film che lui stesso definisce “diverso” rispetto agli altri X-Men «È più drammatico, crudo, reale».

Sotto questo aspetto gli si può dar ragione, vista anche la morte – ampiamente preannunciata, anche in fase promozionale – di uno dei membri originali della saga. Non solo, ma in Dark Phoenix veniamo a conoscenza del “lato oscuro” di diversi personaggi, oltre a quello della titolare Fenice/Jean Grey (Sophie Turner). Hank/Bestia (Nicholas Hoult) e soprattutto il Professor X (James McAvoy) si dimostreranno più che umani nel loro cedere alle emozioni meno edificanti, nel loro voler sistemare le cose grazie ai poteri di cui sono dotati.

E se di potere dobbiamo parlare, non possiamo non fare riferimento all’emblematica battuta pronunciata da Mystica/Jennifer Lawrence che diverrà presto una delle più celebri del film: «Siamo sempre noi donne a salvare gli uomini, alla fine. Dovremmo chiamarci X-Women».

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«Credo sia fantastico il fatto che Jean non sia solo il personaggio centrale del film in quanto mutante incredibilmente potente, ma anche in quanto essere umano con dei difetti, capace di mostrare vari aspetti ed evoluzioni di sé, un personaggio a tutto tondo. Credo che questa sia una rappresentazione fedele dell’essenza di una donna» sostiene Sophie Turner, che nel frattempo fa notare come persino il personaggio interpretato dalla Chastain, nonostante le intenzioni poco amichevoli, cerchi di spronare Jean a raggiungere il suo più grande potenziale.

Ma quello che X-Men: Dark Phoenix fa meglio, e che richiama anche momenti precedenti della saga, è riunire sullo schermo i componenti del team e le loro abilità, come nelle scene di lotta dell’ultimo atto. Rafforzando i legami tra i vari personaggi sia attraverso i dialoghi, sia attraverso le scene d’azione, Dark Phoenix riesce a far tornare la banda sul palco per un ultimo encore.

E anche se non abbiamo potuto vedere Jackman un’ultima volta nei panni di Logan/Wolverine – dopotutto, come sostenuto anche da Kinberg, avrebbe stonato in questo contesto, vista la relazione tra Wolverine e Jean -, la pellicola non ci ha lasciato certo con l’amaro in bocca.

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X-Men: Dark Phoenix sarà nelle sale dal 6 Giugno.

Laura Silvestri

Info

Titolo Originale: X-Men: Dark Phoenix

Data di Uscita: 6 Giugno 2019

Durata: 106'

Regia: Simon Kinberg

Con:

Sophie Turner, James McAvoy,

Michael Fassbender, Jessica Chastain,

Tye Sheridan, Nicholas Hoult

Jennifer Lawrence, Alexandra Shipp

Evan Peters

Distribuzione: 20th Century Fox