Il Regno – La Recensione

I re possono cadere, i regni perdurano

Manuel (Antonio de la Torre) è un influente vice segretario regionale che ha tutte le carte in regola per fare il grande salto e imporsi sulla scena politica nazionale, ma viene incastrato da una fuga di notizie che lo coinvolge in uno scandalo per corruzione.

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Vincitore di 7 Premi Goya 2019 tra cui quello per il Miglior Attore Protagonista e per la Miglior Regia, a fronte di 13 nomination, Il Regno (El Reino), pellicola del 2018 diretta da Rodrigo Sorogoyan (Che Dio Ci Perdoni), con protagonisti Antonio De La Torre (Ballata dell’Odio e dell’Amore, Abracadabra) e José Maria Pou (Mare Dentro), è un thriller politico che dipinge la realtà del mondo moderno e ritrae un segmento della società, l’élite politica, come non è mai stato osservato prima. E lo fa attraverso gli occhi di un politico corrotto, impegnato in una lotta per la sopravvivenza dopo aver superato il limite, spinto dal partito e dai propri interessi.

Come un provetto Mr Wolf di tarantiniana memoria, Manuel Lopez Vidal  – vice segretario regionale pronto al grande salto nella politica che conta – mette pezze, risolve problemi, ottiene consensi, divenendo un elemento prezioso del partito politico, ma delle intercettazioni e un’accusa di corruzione incrinano il tutto. Con Il Regno, Sorogoyan porta in scena ascesa, caduta e risalita, di uno zelante uomo di potere, depotenziato dalla propria dimensione regionale, che gli va parecchio stretta.

150 EL REINO ©JulioVergne

Delineando un intreccio solido da una struttura narrativa ambiziosa, caricato tutto sulle spalle del Manuel di De La Torre, il cui arco narrativo è un continuo ribaltamento di ruoli da carneade a vittima, ora subendo passivamente ora invertendo la posizione cercando di trovare le contromisure necessarie a un sistema marcio attraverso le sue stesse regole.
Per una vita in bilico tra sfera pubblica e privata – Manuel infatti – oltre che politico è marito e padre, e gli eventi alla base de Il Regno mettono in dubbio tutti i ruoli sociali che s’è saputo creare nel corso della sua carriera (e vita).

Fino alla suggestiva sequenza conclusiva, dove Manuel e il suo castello di carta dovranno affrontare l’opinione pubblica, la cui voce della giornalista non è che quella del popolo oppresso dinanzi alla corruzione della classe dirigente.

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La regia di Sorogoyan, ispirata e ricca di citazioni – a cominciare dalla suggestiva sequenza d’apertura che rievoca il piano sequenza d’ingresso nel ristorante de Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese – è fatta principalmente di piani medi, particolari e primi piani, volti così a sottolineare gli elementi scenici e il ritmo serrato dei dialoghi, ma anche di semi-soggettive su Manuel, indicanti da subito il punto di vista alla base della narrazione.

Permettendo così al Manuel di De La Torre di muoversi nell’ambiente narrativo dei meandri della politica spagnola de Il Regno – a metà tra Indagine su un Cittadino al di Sopra di Ogni Sospetto  (1971) di Elio Petri e House of Cards di Beau Willimon –  i cui movimenti dietro le quinte sono esaltati da una fotografia di pochi (e spesso freddi) elementi diegetici e principalmente di ombre negli ambienti chiusi, in linea con il tono della pellicola.

Una delle principali debolezze alla base della pellicola  – tuttavia – pur a fronte di un solido intreccio e di una regia che sa fare ben trasparire il conflitto di un uomo nel riequilibrare la propria posizione all’interno del partito, è il montaggio che tende a rendere la pellicola – dal ritmo già lento e cadenzato e dai dialoghi serrati – un’intessitura di sequenze disorganiche il cui effetto clip show va lentamente ad attenuarsi con il crescere graduale della posta in gioco.
L’altro è la colonna sonora, minimale, le cui sonorità techno tendono a creare un effetto straniante nello spettatore.

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Sorogoyan delinea così con Il Regno una rappresentazione verosimile di un sistema marcio e corrotto come quello politico, senza tuttavia prendere posizione giudicante, a partire dalla caratterizzazione del suo protagonista. Il Manuel di De La Torre infatti, non è un uomo innocente, ma un assetato di potere le cui accuse di corruzione gli impediscono di poter incedere nel suo piano e di avere l’appoggio del suo partito – impegnato in tutti i modi a liberarsi di questa patata bollente.
Per un personaggio, quindi, senza alcuna crescita narrativa o conflitto interiore, né tantomeno senso di colpa, anzi, coerente e ben consapevole del suo operato e dei meccanismi della macchina ben oliata che è la politica.

Il Regno di Sorogoyan è certamente una pellicola avvincente e di indubbio interesse, che conferma ancora una volta il talento di Antonio De La Torre come uno degli attori iberici più brillanti della sua generazione.

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Il Regno sarà al cinema il 5 Settembre.

Francesco Parrino

 

Info 

Titolo Originale:  El Reino

Data di uscita: 5 Settembre 2019 

Durata: 132’

 Regia: Rodrigo Sorogoyen 

Con: 

Antonio de la Torre, Mónica Lopez, 

Josep Maria Pou 

Distribuzione: Movies Inspired

Ravenna Nightmare Film Fest – Pupi Avati alla Première

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Pupi Avati alla Première
del Ravenna Nightmare Film Fest

Il regista bolognese presenterà il suo ultimo film Il Signor Diavolo
in occasione della Premiere del Ravenna Nightmare Film Fest il Venerdì 23 agosto ore 20.30
al Cinema City di Ravenna.

In attesa dell’appuntamento ufficiale ad ottobre continuano al multisala Cinema City di Ravenna le Festival Premiere, il ciclo di prime visioni di film d’autore, targate Ravenna Nightmare Film Fest, che in questa occasione ha l’onore di presentare il regista e autore Pupi Avati, padre indiscusso del gotico padano, che presenterà il suo ultimo film Il Signor Diavolo e sarà disponibile ad incontrare il suo pubblico e i giornalisti per un Q&A esclusivo.

A presentare il grande regista Bolognese ci saranno Eraldo Baldini, scrittore romagnolo, conosciuto per il suo stile gotico-rurale, Franco Calandrini direttore artistico del Ravenna Nightmare Film Fest e Nevio Galeati, direttore artistico del festival letterario GialloLuna NeroNotte, che condurrà il Q&A.

Regista, sceneggiatore, scrittore e produttore cinematografico, Pupi Avati è uno dei maggiori protagonisti del panorama artistico e cinematografico italiano di oggi, che, periodicamente torna a cimentarsi con il cinema horror dando vita a quello che viene considerato il gotico padano: un cinema dell’orrore intimo e personale, che denuncia la tragicità del presente e rimpiange un passato ormai perduto e che con Zeder, presentato in versione restaurata durante la prima edizione di Ravenna Nightmare, La Casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore ha portato il genere a livelli di eccellenza.

Il Signor Diavolo segna il ritorno del regista al genere horror.

“Roma 1952. Furio Momentè, ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia, viene inviato a Venezia per risolvere una delicata questione. Un ragazzo ha ucciso un coetaneo convinto di uccidere il diavolo. L’obiettivo dell’ispettore è quello di evitare la deposizione di un prete e di una suora nel procedimento penale in corso. Iniziate le indagini, Montanè verrà immischiato in delle trame oscure e complesse, ma ciò che verrà alla luce sarà molto più agghiacciante di quanto immaginasse”.

Ingresso: intero 8€ ridotto 6,50€

Per maggiori informazioni potete consultare il sito ufficiale dell’evento www.ravennanightmare.it

La Redazione

Fonte Immagine: Bologna Today
Comunicato Stampa: Ravenna Nightmare Film Fest

 

 

Il Re Leone – La Recensione

Una foto ricordo lunga un film

Nella savana africana, l’era di un Re sta per terminare, e quella di un giovane leone che ha ancora tanto da imparare, sta per cominciare. Ma guardando alle stelle e tenendo sempre a mente il Cerchio della Vita, anche il cucciolo crescerà e imparerà a ruggire senza timore. 

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Negli ultimi anni in casa Disney, parte della produzione è stata all’insegna dei remake live-action dei grandi classici. Cenerentola, Il Libro della Giungla, Maleficent, La Bella e la Bestia, Dumbo e più recentemente Aladdin. Ma se ci sono stati pareri discordanti su questa operazione, non se ne può certamente negare il fascino.

Quello di Jon Favreau, però, non si può qualificare come un vero e proprio rifacimento live-action de Il Re Leone. Il termine tecnico da utilizzare in questo caso, infatti, è fotorealismo.

Perché guardando questa nuova iterazione del classico del ’94, all’epoca diretto da Allers e Minkoff, si possono notare le ingenti influenze documentaristiche, che unite alla tecnologia più avanzata, hanno dato vita a quella che si potrebbe definire una foto lunga un film.

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Tutto, nella savana ricreata digitalmente (eccetto una particolare inquadratura) da Favreau, scorre sullo schermo con una verosimiglianza impressionante, che però in alcuni casi può correre il rischio di creare un effetto di straniamento nello spettatore.

In ambito strettamente narrativo, la scelta di una riproduzione il più possibile fedele all’originale, pur realizzando una serie di modifiche – anche se sostanzialmente minime, soprattutto se le si pone a confronto con gli altri remake realizzati finora –  è stata voluta dal regista per “onorare l’originale” e permettere al pubblico di dire «Ho visto Il Re Leone», come lui stesso ha affermato nelle interviste per varie testate.

E se ad alcuni questa soluzione può non essere andata particolarmente a genio, Favreau ci tiene a rimarcare che «Ognuno ha la sua formula. Non sto dicendo che è questo il modo in cui va fatto, ma questo è il modo in cui io l’ho fatto».

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Ma parlando di differenze dall’originale, le più evidenti sono da riscontrare nelle scene che coinvolgono il duo comico Timon e Pumbaa (doppiati da Billy Eichner Seth Rogen nella versione inglese, mentre in italiano hanno le voci di Edoardo Leo e Stefano Fresi), la cui presenza si fa ancora più prominente che nel classico animato, e che anche il doppiaggio nostrano ha trovato il modo di rendere brillante. Non che una determinata scena dal sapore metafilmico – che i fan Disney di lunga data apprezzeranno particolarmente – avesse bisogno di tutto questo aiuto per essere eletta a una delle migliori trovate della pellicola… Anche il fedele Zazu (John Oliver/Emiliano Coltorti), poi, sembra avere un valore aggiunto in questa iterazione, con una maggiore dose di ironia dalla sua, che giova particolarmente al personaggio.

Un altro aspetto innovativo,  influenzato forse anche dei tempi che corrono, risiede in una maggiore agency per i personaggi femminili. Sia Sarabi che Nala (Beyoncé, come tutti saprete, è la voce originale del personaggio, mentre in Italia abbiamo la cantante Elisa in cabina di doppiaggio) sono decisamente più padrone delle proprie azioni e del proprio destino, con ripercussioni anche sullo svolgimento della vicenda.

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E visto che lo abbiamo ripetutamente nominato, e a ragione data l’importanza dell’operazione in questo caso, veniamo dunque all’adattamento italiano: diverse critiche sono state mosse nei confronti delle nuove voci di Simba e Nala, ovvero i cantautori Marco Mengoni ed Elisa, che si sono cimentati nell’impresa di doppiare i protagonisti, oltre che a reinterpretare le canzoni del film. E nonostante non si possa dire che se la siano cavata al pari dei professionisti, non sono stati nemmeno tutto questo disastro anticipato da alcuni, seppure visibilmente più a loro agio in determinate scene piuttosto che altre.

In merito a questa esperienza, i due artisti hanno commentato in sede di conferenza stampa: «Assieme a Fiamma Izzo [direttrice di doppiaggio, con cui sia Elisa che Marco  hanno collaborato già in un’altra occasione], che è stata il mio faro del buio in fase di doppiaggio, abbiamo lavorato su delle precise emozioni per cercare di trasmettere la fierezza delle leonesse, la combattività di Nala. […]» spiega Elisa, mentre Marco rivela «Ho dovuto lavorare un po’ il doppio [rispetto alla sua prima esperienza di doppiaggio], perché il personaggio muta durante il film. Da piccolo erede al trono si ritrova ad essere un po’ un giocherellone, spinto e portato anche dagli altri due, Timon e Pumbaa, ad essere un po’ più “fanciullotto”, un po’ più spensierato. Poi però deve prendere, ovviamente, le redini della situazione e tornare ad essere quello che avrebbe dovuto essere in origine: un Re. Quindi abbiamo lavorato tantissimo sulla fierezza per quanto riguarda l’ultima parte del film, e prima mi sono giocato le mie carte da giovane ragazzo che vive i tempi di oggi… Cioè da me. Ho interpretato me stesso, perché in alcuni momenti, e cito un altro cartone Disney, sono ancora un po’ Peter Pan, quindi non vorrei mai invecchiare o prendermi determinate responsabilità. Però sicuramente questo è stato un aspetto su cui si è lavorato molto, sul prendersi la responsabilità della propria vita».

Quelli che, almeno secondo la nostra opinione, hanno invece fatto rilevare una performance leggermente al di sotto dei loro soliti (alti) standard, sono stati proprio i doppiatori di professione, come Luca Ward (Mufasa) e Massimo Popolizio (Scar), risultando, in questa occasione, forse un tantino troppo impostati.

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Passando poi alla reinterpretazione degli storici brani della colonna sonora, Mengoni ha spiegato che, pur dovendo rimanere in una certa misura fedeli alle versioni originali [sia quelle del ’94, che quelle riadattate da Beyoncé, Glover & Co.], hanno comunque dovuto tenere conto della lingua d’arrivo e delle sfide, come delle opportunità, che essa presenta: «La difficoltà è che l’inglese è una lingua – lo metto tra virgolette – un po’ più “fredda” rispetto all’italiano, che è una lingua più romantica, e quindi melodicamente è molto diversa. Perciò trasportarlo in italiano, è stato un lavoro difficile, soprattutto per quanto riguarda la mia parte. In alcuni momenti era strano dover rispettare quel tono che ha l’inglese, e traslarlo in italiano, quindi ci siamo dovuti inventare degli escamotage teatrali per essere più fedeli possibile a loro, ma anche alla nostra bellissima lingua. A volte abbiamo dovuto cambiare anche alcune parole per rientrare nel sync. Non è stato difficilissimo, ma è stato un bel lavoro, intenso».

«Il lavorone sul personaggio, sulla lingua inglese e la lingua italiana… Ovviamente gli stessi problemi che ha incontrato Marco li ho incontrati anche io. Pur avendo grande interesse per il campo, io ho accettato di fare questo film, non essendo un’attrice o una doppiatrice, a condizione che affianco a me ci fosse una professionista come Fiamma Izzo […]. Bisogna affidarsi tantissimo al team, e in questi casi, ancora di più. […] E quindi si lavora con i suoni, si lavora con le tonalità. Beyoncé ha un tono molto basso nel parlato, dunque abbiamo voluto rispettare, sia per una policy Disney, che per una rigorosità nostra, il più possibile l’originale. Forse è anche per questo che in Italia sono così bravi nel doppiaggio. Perché sono estremamente rigorosi per questi aspetti: il tono della voce, le note addirittura… Si vanno ad analizzare le note delle esclamazioni.» racconta Elisa, e prosegue: «Nel cantato mi ha seguito Virginia Brancucci, e onestamente non ci siamo messe lì a cercare di fare Beyoncé. Per ovvi motivi. Uno perché sono già Elisa in Italia, e due perché non è possibile, giustamente. Sarebbe controproducente. Quindi anche lì è stato un lavoro di ricerca, di mantenere le assi portanti di quel personaggio, lo spirito, e di capire quali invece erano gli ingredienti da aggiungere, unici e originali, che potevo mettere io. A me magari piace inserire i falsetti, che rappresentano la dolcezza, lo faccio sempre… È un po’ una signature mia, così. Ma sono anche legata alla parte opposta, quella del gospel, che ho sempre molto amato. E paradossalmente, sono cose che ho anche un po’ in comune con Marco. […] E quindi ciò che mi affascina in tutto questo è la ricerca, l’arricchimento artistico con cui torno a casa dopo un’esperienza del genere».

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A ogni modo, le “nuove” canzoni sono sicuramente da ascoltare, sia in originale che in italiano, dato che in questo caso più che per ogni altro, le preferenze al riguardo andranno probabilmente a gusto personale.

E agli spettatori rimandiamo anche per un giudizio sulla pellicola, che a noi ha dato l’impressione di un edulcorato viaggio nel passato, a volte dal sapore alquanto dolce, altre decisamente meno, lasciandoci in dubbio sul posto che occupa nel nostro album dei ricordi.

Teaser Poster

Il Re Leone sarà al cinema dal 21 agosto.

Laura Silvestri

Materiali Stampa: Disney Italia
Info

Titolo Originale: The Lion King

Durata: 118'

Data di Uscita: 21 agosto 2019

Regia: Jon Favreau

Con: 

Donald Glover, Beyoncé,

Seth Rogen, Billy Eichner, 

Chiwetel Ejiofor, John Oliver,

James Earl Jones, John Kani

Distribuzione: Walt Disney Company

Crawl – Intrappolati – La Recensione

Una gara di nuoto con la morte

Sulla costa della Florida si sta per abbattere un uragano di proporzioni bibliche e l’allerta si fa sempre più incalzante. Haley, una ragazza dedita da sempre al nuoto, si preoccupa quando la sorella la chiama, non riuscendo più a contattare il padre. Dal divorzio con la madre, padre e figlia avevano perso i contatti, ma la ragazza sarà pronta a sfidare un cataclisma pur di raggiungerlo e assicurarsi che stia bene.

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In questa torrida estate, arriva a portare un brivido sulla schiena questo horror/disaster movie condito di rapporti padre/figlia ed enormi alligatori pronti a sbranare qualsiasi cosa si trovino davanti. Con quella (appena percettibile) venatura à la Jaws, Alexandre Aja porta sullo schermo una storia che vorrebbe essere al cardiopalma, con situazioni al limite, ma smorza con discorsi sui delicati rapporti familiari e la necessità di dare un equilibrio a questi rapporti. 

Siamo in Florida, terra dei parchi divertimento, delle spiagge assolate e… dei disastri climatici. Haley (Kaya Scodelario) è negli spogliatoi della piscina quando viene contattata dalla sorella: il padre non risponde al telefono, e nel frattempo un terribile uragano sembra dirigersi sulla costa, proprio dove si trova l’uomo.  Mentre l’allerta obbliga tutti a restare chiusi in casa, la ragazza si mette in viaggio per accertarsi che il padre stia bene, nonostante la tempesta, nonostante i rapporti non siano stati certo dei migliori, dopo la separazione con la madre. 

Una volta arrivata alla vecchia casa dei genitori, troverà proprio il padre (Barry Pepper)  in difficoltà, ferito e privo di sensi, in un angolo dello scantinato; qui ci accorgiamo che non sono soli, perché l’abitazione, ormai allagata, è adesso popolata da feroci alligatori giganti. La situazione assume i toni netti di un survival, infatti padre e figlia dovranno usare le loro forze per uscire da quella che è diventata una trappola letale, mentre il livello dell’acqua continua a salire, inesorabile. Intanto, questa situazione li porterà a confrontarsi faccia a faccia, con i loro sbagli e le loro recriminazioni; certamente, non è facile superare certe esperienze, ma Haley è ormai una donna forte, che deve molto agli insegnamenti del padre – soprattutto quelli dati in veste di suo allenatore di nuoto quando era ancora bambina- .

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In Crawl – Intrappolati troviamo sicuramente un buon ritmo e sana adrenalina in vari momenti, con un tocco di splatter ad acuire la sensazione di pericolo – tutti elementi, del resto, assolutamente in armonia con il mondo di Sam Raimi, produttore della pellicola -. Ma che cosa non funziona? Con tutta probabilità, la decisione di voler dare ad una pellicola del genere una caratterizzazione poco naturale all’interno di situazioni a loro volta per niente “naturali”. Per quanto si apprezzi lo sforzo, tra un inseguimento da parte di sanguinari rettili e il rischio di finire annegati, non è efficace il tentativo di sviscerare quelle problematiche delicate che la storia ci pone davanti.

“Crawl” si rivela, dal canto suo, un termine perfettamente calzante all’interno di questo contesto: sta a designare, in lingua inglese, la tecnica di nuoto conosciuta da noi con il nome (poco preciso) di stile libero; il verbo inglese sta anche ad indicare il particolare movimento strisciante dei rettili. Sarà proprio una inquietante “gara” di velocità, all’ultimo secondo, quella tra donna e bestie, con in palio la salvezza, sua e del padre.

Un’operazione che si è forse voluta prendere troppo sul serio, che vuole portare riflessioni sulla forza interiore che affiora delle difficoltà e sui legami familiari complicati, ma in quella che non è affatto “la sede adatta”; un grande lavoro a livello registico, nella realizzazione e nella scenografia (la stessa per buona parte del film), ma poca sostanza, dove quel poco da’ l’impressione di essere di troppo.

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Crawl – Intrappolati sarà al cinema dal 15 agosto.

Cristiana Carta

 

Info

Titolo Originale: Crawl

Durata: 87”

Data di Uscita: 15 agosto 2019

Regia:  Alexandre Aja

Con:

 Kaya Scodelario, Barry Pepper

Distribuzione: 20th Century Fox 

Teen Spirit – La Recensione

Diventerai una Star

Violet è una timida ragazza di origini polacche, che vive insieme alla madre nella piccola e pittoresca (insomma, arretrata) Isola di Wight; introversa e insoddisfatta, possiede una voce davvero eccezionale; sembra però essere la fiducia nel suo talento a mancarle. L’opportunità di partecipare a Teen Spirit, il talent show più in voga del momento, cambierà tutto.

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Presentato in anteprima italiana al Giffoni Film Festival 2019, l’esordio alla macchina da presa dell’attore Max Minghella ci scorre incalzante davanti agli occhi, dispiegandosi come un canonico racconto di rivalsa, incentrato interamente sul perseguimento dei propri sogni. Parliamo di una storia piuttosto lineare e prevedibile – del resto tratteggiata seguendo il rigido schema riservato ai vari X Factor e American Idol proposti in televisione – ma che fortunatamente può pregiarsi di una messa in scena abbastanza audace e interessante.

Violet Valenski (Elle Fanning) è la tipica adolescente timida insicura, abita sull’Isola di Wight con la madre e, avvolta in un alone di asfissiante monotonia, niente le sembra abbastanza: un cavallo a cui badare, delle compagne di scuola sempre pronte a snobbarla e un lavoretto mediocre è tutto ciò con cui può riempire le sue giornate. Se non altro, qualche sera dimentica tutto e si rifugia, lontana dalla severità della madre, in un piccolo locale dove finalmente può sfogarsi cantando. La sua è una voce meravigliosa, che tradisce un grande talento e il nascosto desiderio di diventare una cantante affermata. 

 Quasi come un segno del destino, il cartellone pubblicitario di Teen Spirit, il programma televisivo in cerca di talenti, attira la sua attenzione; quello di cui ha bisogno è una figura adulta che le faccia da manager, da “mentore”, e lo troverà in un vecchio ex cantante lirico dedito all’alcool, Vlad (Zlatko Buric). Le varie fasi di audizioni non sembrano un particolare ostacolo, tanto più con i preziosi consigli tecnici di Vlad. La seconda parte del film sembra aprire come un mondo parallelo, e le esibizioni in diretta televisiva danno l’impressione di trovarsi all’interno di un videoclip. È questo un mondo fatto di plastica, luce, balli e musica, che promette tanto a chi ha un sogno per poi prendersi più di ciò che ha dato; il grande peccato è che non si arriva fino in fondo nella critica, risolvendosi in un accecante e zuccheroso nulla di fatto.

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I riferimenti che si mostrano al colpo d’occhio nella regia del figlio d’arte Minghella sono sostanzialmente due: difatti, ad una fotografia dai colori tenui capace di dare forma alla poesia delle piccole esperienze quotidiane e ai turbamenti giovanili – non lontana dal cinema di Celine Sciamma – si contrappone un’atmosfera più “aggressiva”, fatta di glamour, penombra, luci al neon e musica dal ritmo sincopato, esteticamente imparentata al magnetico Neon Demon di Nicolas Winding Refn. 

Non sarà un caso che l’eterea Elle Fanning abbia prestato il suo volto anche alla giovanissima modella, simbolo di pura perfezione, protagonista nel film di Refn, e senz’altro i due personaggi conservano dei tratti analoghi: entrambe pervase da un’accanita ingenuità, con l’atteggiamento di chi è costantemente fuori luogo, però in grado di celare una certa dose di ambiguità e forza interiore. Nonostante ciò, le due pellicole non possiedono affatto la stessa potenza espressiva e narrativa. 

Volendo partire proprio dalla caratterizzazione dei personaggi, Teen Spirit sembra quasi dimenticare il fattore umano ed introspettivo presentando il più delle volte delle figure superficiali, ad eccezione di Violet, comunque enormemente debitrice dell’interpretazione portata dalla Fanning; un ottimo lavoro il suo, non solo attoriale ma soprattutto canoro, che l’ha vista applicarsi duramente anche nell’esercitazione vocale. 

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Per quanto si tratti di un racconto animato dal bisogno di rivalsa, apparentemente deciso a mostrare i lati un po’ più scuri della fama, ciò che manca è il “fattore ostacolo”, il conflitto: per quanto sulla sua strada si pongano una madre severa e bigotta, o dei produttori discografici senza scrupoli, non sembra mai veramente messo in discussione il raggiungimento del suo obiettivo finale; sembra essere tutto destinato al proprio destino, come la sensazione lasciata dalla finale di un talent show, in cui non si può che esclamare “ma tanto era chiaro che avrebbero fatto vincere Tizio\Caio!”.

Non è del tutto chiaro se Teen Spirit: A Un Passo Dal Sogno sia riuscito ad esaurire il suo discorso oppure si sia rivelato inefficace, sta di fatto che nel caso della prima ipotesi sarebbe lecito chiedere qualche cosa di più di una confortante scalata al successo.

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Dal 29 Agosto al cinema.

Cristiana Carta

Info

Titolo Originale: Teen Spirit

Durata: 93’

Data di Uscita: 29 Agosto 2019

Regia: Max Minghella

Con: 
Elle Fanning, Rebecca Hall, 
Millie Brady, Elizabeth Berrington, 
Zlato Buric

Distribuzione: Notorious Pictures

Goldstone – La Recensione

Qui, anche la più piccola pietra può provocare una frana imponente.

“Non è un paese per giovani donne” 

In una Goldstone fatta di tramonti rosa, container, roulotte dispersi nella sabbia e corruzione, il detective Jay Swan, uomo di poche parole e dal triste passato, dovrà indagare sul caso della scomparsa di Mei Zhang, una ragazza cinese.

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Attraversando l’unica strada che porta alla mineraria cittadina australiana di Goldstone, il detective Jay Swan (Aaron Pedersen), sbandato nella guida e incline allo scolare l’ultimo goccio dalla bottiglia, fa il suo primo incontro con Josh (Alex Russel), un giovane poliziotto, che sulle prime appare come l’unico garante della sicurezza della città, l’uomo che dovrebbe reprimere quella corruzione che invece “guadagna sempre più terreno”.

E mai espressione sembra essere più adatta: infatti gran parte dell’aspetto illegale della storia riguarda proprio il sospettabile ampliamento territoriale della miniera Furnace Creek, che dovrà estendersi per l’intero bacino aureo.

Come spiega il sindaco Maureen (Jaki Weave), per ottenere tale concessione occorre l’approvazione degli indigeni. Dato che potrebbero presentarsi “migliaia di intoppi burocratici”, il compito che la donna assegna a Josh è proprio quello di contenere possibili le complicazioni. Va da sé che tra queste si aggiunge immediatamente l’arrivo di Swan che, per trovare la giovane scomparsa, potrebbe venire a conoscenza dei vari traffici del sindaco Maureen, il cui motto è lapidario: “Qui, anche lapiù piccola pietra può provocare una frana imponente. E non siamo molto gentili con chi arriva e lancia le pietre senza ragione.”

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 Dopo Mystery Road (2013), Ivan Sen torna a dirigere un nuovo capitolo delle vicende dell’ispettore Jay Swan, dedito all’alcol dopo la perdita della figlia.

Per alcuni versi Goldstone sembra strizzare l’occhio all’aspetto sociale dei vecchi film western, quelli in cui un personaggio dalla discutibile moralità si rivela essere un puro.

Swan, che appare sempre come un uomo molto sporco, malcurato e sbronzo è “il buono” della vicenda, così come la prostituta “on the road”, Anne “Pinky” (Kate Behan), che si rivela essere una preziosa aiutante. Allo stesso tempo, il sindaco Maureen, che compare sempre così elegante e curata al punto da stonare con la polvere del deserto, diventa il personaggio più viscido dell’intero film.

Interessante è la “firma” dei loschi accordi della donna: la consegna di una torta di mele a coloro che devono tenersi alla larga dai suoi affari. E se una mela al giorno leva il medico di torno, una torta sicuramente ha un raggio di azione molto più ampio.

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Il genere del film sembra oscillare tra il thriller e il noir: non mancano infatti le sparatorie, le scene di inseguimento in auto, le supposizioni fatte dai due poliziotti, le – più o meno – false piste che gli vengono fornite e i depistaggi del caso. Tutto questo dovrebbe conferire un senso di dinamicità che però va perdendosi a causa della presenza di numerose sequenze troppo lunghe e quasi prive di un commento audio.

Le musiche diventano dei suoni ambientali, i dialoghi sono composti da moniti coloriti da un linguaggio scurrile per far sottolineare l’estrazione sociale di un determinato personaggio.

Dati pleonastici.

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Un valido punto di forza sta nella pittoresca fotografia, curata dallo stesso Sen: i campi totali e le riprese dall’alto evidenziano la bellezza dei territori australiani, soprattutto nelle sequenze girate al tramonto.

In aggiunta, vanno menzionate anche quelle inquadrature dedicate alle insegne al neon dei container adibiti a pub, o quella sulla roulotte “Pinky’s” di proprietà di Anne.

In definitiva, Goldstone è un film che potrebbe catturare quella fetta di pubblico che si lascia raccontare delle storie composte da trame e fitte sottotrame, colorite da personaggi con un passato che riaffiora in maniera decisiva e che, spesso, determina le loro scelte.

Un consiglio che vi diamo è quello di non trascurare i dettagli, perché è lì che risiedono il diavolo e le soluzioni delle varie vicende.

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Goldstone uscirà nelle sale italiane l’8 agosto, distribuito da Movies Inspired.

Lucrezia Roviello

 

Info

Titolo: Goldstone

Data di uscita: 8 agosto 2019

Durata: 110’

Regia: Ivan Sen

Con: 

Aaron Pedersen, Alex Russell, 

Jacki Weaver, David Wenham, 

Pei-pei Cheng, David Gulpilil, Linda Chien

Distribuzione: Movies Inspired


C’Era Una Volta A… Hollywood – Il Racconto Della Conferenza Stampa

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Estate 2019.

Roma, 3 Agosto. È un sabato caldo e assolato. Nei pressi del Cinema Adriano, in Piazza Cavour, sono ancora visibili i postumi della Premiére di un film Hollywoodiano, uno di quelli che si è disposti a stare lì ad aspettare già dalla mattina, sotto il sole cocente, fino alla sera, sotto alla pioggia estiva, fugace ma battente.

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Un po’ come era andata il giorno prima, quando centinaia di persone hanno condiviso per ore un posto dietro le transenne per poter avere la propria, piccola (si fa per dire) Hollywood personale, e hanno atteso l’arrivo di alcuni dei più grandi nomi del cinema mondiale, venuti qui nella Capitale per presentare il loro ultimo sogno su pellicola: C’Era Una Volta A… Hollywood, in uscita il 18 settembre nelle sale italiane.

E di sogno si tratta se, pubblico o stampa, davanti a sé ci si ritrova poi un gruppetto formato da Quentin Tarantino, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie, David Heyman e Shannon McIntosh.

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E così, verso mezzogiorno e mezzo del penultimo dì della settimana, ecco regista, attori e produttori prendere posto dietro i microfoni per quella che sarà la conferenza stampa romana del film.

Prime domande della giornata rivolte ai due produttori della pellicola, Shannon McIntosh, già collaboratrice di Tarantino in altre occasioni, e David Heyman, celebre produttore delle saghe del Wizarding World (Harry Potter, Animali Fantastici).

Parte la McIntosh, in riferimento al rapporto regista-produttori: «È un viaggio fantastico. Ogni volta che ti propone qualcosa da leggere, ti fornisce uno script alto tanto [mostra quanto con le mani], lo leggi, e sai già che sei pronto a imbarcarti per la tua prossima avventura. Lui  ti mette davanti sempre a tanta avventura e divertimento, così quando leggi la sceneggiatura non puoi che pensare “Ma come faremo tutto questo?”. Allora provi a estrapolare ogni parola, inizi a cercare le location, a immaginare come fare affinché la sua visione si concretizzi e la magia possa divenire realtà. È un’esperienza magnifica».

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Anche a David Heyman, che di portare la magia sullo schermo decisamente se ne intende, viene chiesto di condividere la propria esperienza al fianco del regista. «Privilegio, è la prima parola che mi viene in mente per descriverla. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei registi meravigliosi nel corso della mia carriera, ma questa è stata davvero un’esperienza unica. Quentin è un maestro della regia: ha il controllo di ogni singolo aspetto della produzione; quando leggi i suoi script, sono così dettagliati, che è come se avessi le scene davanti agli occhi. E poi le vedi davvero prendere vita con questa incredibile famiglia, davanti e dietro la cinepresa. La sua attenzione per i particolari, la sua inventiva senza fine, e allo stesso tempo la facilità con cui crea un’atmosfera di eccitazione, di possibilità e inclusività… Ho lavorato con molti registi che creano attraverso il dolore, ma Quentin crea attraverso il piacere. È stata davvero una delle più belle esperienze della mia carriera».

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Il microfono passa a uno dei protagonisti del lungometraggio, Leonardo DiCaprio, che sullo schermo veste i panni di Rick Dalton, grande nome della Hollywood anni ’60 dipinta nel pittoresco mondo creato da Tarantino. Ma come è stato interpretare questo personaggio che si trova in un momento della sua carriera che non è dei più alti? «Prima di tutto, la sceneggiatura di Quentin è stata assolutamente brillante nel dar vita a questi due personaggi e al rapporto tra di loro; uno stuntman e un attore che osservano dalla periferia di Hollywood, che guardano questa cultura, questa industria che sta cambiando, e cercano allo stesso tempo di sopravvivere al suo interno» racconta l’attore Premio Oscar «Ma quello che era più interessante del suo approccio è che si trattava di uno scorcio di vita, un paio di giorni. E credo che una delle conversazioni iniziali tra me e Quentin fosse tutta sul come fare per ritrarre l’anima di questo personaggio in un così stretto lasso di tempo. E molto aveva a che fare con il mio personaggio [Rick Dalton] alle prese con un ruolo in uno show a cui non voleva esattamente prender parte, un ruolo da villain, sentendosi come se fosse stato messo lì per facilitare il lancio della nuova generazione di attori, mentre lui veniva lasciato indietro. Così il nostro processo creativo si è incentrato sul cercare di realizzare quei momenti, quei dettagli che avrebbero potuto dare davvero al pubblico quel pathos, l’essenza di quest’uomo. E questo ha dato vita a tutti quei pezzetti in cui si impiccia con le battute, dà di matto nei camerini… E questa idea che il personaggio potrebbe essere bipolare, e che possa soffrire d’ansia, per via del fatto che alla fine è un essere mortale, e che la cultura e l’industria stanno andando avanti, nonostante tutto».

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Ma che effetto fa ritrovarsi all’interno di serie e film che hanno segnato un’epoca e ora non ci sono più? «Uno dei privilegi dell’essere un attore è quello di essere esposti non solo ad argomenti che padroneggi e con cui hai una grande familiarità. Come penso sappiate tutti, Quentin è un vero e proprio cinefilo. Ma non è solo questo, lui sa anche tantissime cose sulla televisione e sulla musica, quindi ho avuto l’opportunità di essere esposto a un’era, quella degli anni ’50 e ’60, piena di serie e film pulp sui cowboy, film che non avrei probabilmente visto, ma lui ha un tale rispetto per queste pellicole, lo stesso che abbiamo tutti nei confronti di quelli che consideriamo dei capolavori. E abbiamo preso ispirazione da diversi attori per questa parte, ma ce ne è stato uno in particolare, Ralph Meeker, ed è stato fantastico vedere il rispetto di Quentin per questo attore che io non conoscevo bene, e che molte persone probabilmente non ricordano bene. Ma abbiamo guardato alla sua carriera, alla sua filmografia, con il rispetto e la voglia di scoprire come qualcosa del genere sia stato poi dimenticato nel tempo, e quale sia stata la base di quel declino creativo. E potrà anche non aver avuto tutti i ruoli che desiderava, ma ha comunque dato il suo contributo al cinema e alla televisione. Che è qualcosa che lui stesso potrebbe non aver realizzato».

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E a che punto del suo percorso professionale pensa di essere Leonardo? «Sono cresciuto guardando film, e non penso che riuscirei ad ottenere quello che sono stati in grado di ottenere i miei eroi. Perciò cerco continuamente di migliorarmi, di lavorare a film sempre migliori, di interpretare personaggi migliori, di fare tutto ciò che in mio potere per cercare di raggiungerli, perché loro hanno fatto così tanto, e non credo di potermi mai sentire alla loro altezza».

 

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Che effetto fa vedere delle storie così lontane nel tempo, come quelle storie che sono state riportate in vita in C’Era Una Volta A… Hollywood? La domanda è rivolta al trio DiCaprio-Tarantino-Robbie, ed è proprio quest’ultima a rispondere per prima: «Credo di essere grata, per alcuni versi, di lavorare nell’era attuale, perché ci sono così tanti ruoli femminili, ultimamente, che sono davvero entusiasmanti e degni di nota. Ma non è che non esistessero a quei tempi… forse erano più scioccanti e innovativi, all’epoca. Guardando film degli anni ’50 e ’60, ne ho visti così tanti che adoro, e so che Hollywood è cambiata parecchio da allora, specialmente dal periodo in cui è ambientato il nostro film; il momento di passaggio vero e proprio c’è stato tra il ’65 e il ’69, che ha poi spianato la strada agli anni ’70. E credo che al momento Hollywood stia seguendo un percorso simile, stiamo vivendo un nuovo passaggio verso un tipo di contenuti differenti ed entusiasmanti».

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La parola passa poi a Tarantino, che afferma: «Alcuni dei film di cui abbiamo parlato nella nostra pellicola, li ho visti tra il ’69 e i primi anni ’70, perché sapete, prima potevano restare anche un anno al cinema. Nel caso di The Wrecking Crew, l’ho visto quando uscì, credo avessi 6 anni, ed è interessate, ricordo che avevo già visto i film di Dean Martin e Jerry Lewis, ero un fan, erano tra le celebrità più famose al mondo. Ma sono stato assolutamente rapito da Sharon Tate in quel film. Se lo avete visto [il film], è una performance davvero divertente, perché interpreta questo agente segreto un po’ maldestro. E lei aveva un dono, era portata per questo genere [la commedia], ed era davvero divertente vederla eseguire queste acrobazie alla maniera delle slapstick comedy. A 6 anni, la slapstick comedy è probabilmente il tuo genere preferito, e ti vedi questa ragazza carina che inciampa di qua e di là, senza però perdere mai il suo aplomb. Era assolutamente affascinante, mi ha completamente rapito, e il film ha queste gag fantastiche, soprattutto nel finale… Ha davvero fatto colpo sull’audience. Ricordo di averlo visto al Garfield Theater di San Gabriel, e ha davvero fatto scoppiare fragorose risate e applausi in sala» e poi aggiunge «Tra l’atro, cosa che credo sia parte dell’ispirazione per la scena di Margot al cinema, quando il film è uscito in sala, ho fatto la stessa cosa che ha fatto lei [in C’Era Una Volta A… Hollywood]: stranamente il cinema in cui ero in quel giorno aveva un patio simile a quello del Bruin, e quando sono uscito dalla sala con i miei genitori, sono andato vicino al poster del film per vedere chi fosse quell’attrice. Ho guardato le insegne, le stesse che ho usato anche io nel film, e ho chiesto “Chi è Miss Carlson?” e mi è stato risposto “Sharon Tate” al che ho commentato “Forte, sembra una a posto”. Per quanto potesse sembrarmi a posto un adulto all’età di sei anni. Ora, credo che The Wrecking Crew sia un bel film, anche se un po’ assurdo, e io sono un grande fan del regista, Phil Karlson, ma quella pellicola in particolare credo sia un pochino ridicola… Ma lei era così affascinante e brava! E mi è piaciuta l’idea di mostrare la clip originale del film, dove lei e Nancy Kwan hanno questo scontro coreografato da Bruce Lee. Credo sia davvero divertente».

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Infine è DiCaprio a dire la sua sul “throwback”: «Penso fosse affascinante, perché sapete, ho pensato al 1969, e come mai questo film sia ambientato proprio in questo periodo. Così ho cercato su google tutto quello che è accaduto a livello culturale in quell’anno, tutti i film che sono usciti, ed è davvero un punto di svolta letterale nella storia americana e in quella del cinema americano; credo abbia spianato la strada ai nostri eroi. Era l’era dei registi, quando il potere di rendere un film tra i più memorabili era in mano loro. È stato davvero un punto di svolta culturale».

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Il successo riscontrato oltreoceano di C’Era Una Volta A… Hollywood ha a che fare, secondo Tarantino, con l’effetto nostalgia? «Beh, credo che in realtà sia una combinazione di cose. È un soggetto interessante, e non ci sono altri film quest’anno che affrontano l’argomento e possono definirsi simili, quindi ha il beneficio di potersi dire unico. Penso che molto si debba anche al cast, la gente è davvero entusiasta di poter vedere questi attori nel film. E poi, credo che sia stato fatto un buon lavoro con la pubblicità, sembra un film di grande intrattenimento, un buon modo per passare una serata. Le recensioni, almeno in parte, hanno contribuito a confermare la tesi, quindi sì, direi una combinazione di tutte queste cose».

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Come nasce la passione del regista per i film di un certo tipo di produzione nostrana, come i B-Movie e i Western all’italiana? «Sono un fan dei film di genere in generale, e sono un fan di quelli che voi chiamate B-Movie. Mi piace molto la prospettiva italiana sui film di genere, che si tratti di Spaghetti Western, Macaroni Combat, Gialli,  Peplum… In realtà i Peplum non mi fanno impazzire tanto quanto il resto, ma ad esempio adoro le Sex Comedy all’italiana. Una delle cose che più mi affascinano di questi generi, in particolare degli Spaghetti Western, dei Gialli e dei Polizieschi è che sono il loro punto di partenza sono stati i policier francesi oppure i western americani anni ’50, ma poi li hanno reinventati. Proprio l’idea di prendere un vecchio genere e trovare un nuovo modo di raccontarli, a un nuovo pubblico e con un’enfasi diversa mi entusiasma tantissimo. Adoro come siano riusciti a fare una cosa simile. È un modo per aggiungere nuove sfumature al genere, e in particolare nel caso degli Spaghetti Western, quei registi come Leone, Corbucci, Sollima, Tessari… Quasi tutti loro hanno iniziato come critici cinematografici, per poi diventare sceneggiatori e passare alla seconda unità. Loro erano assolutamente appassionati e innamorati del cinema come lo erano gli artisti della Nouvelle Vague francese che ebbero un simile percorso. E il loro estremo entusiasmo per il genere è semplicemente delizioso. E anche, quello che per me li rende ancora più italiani, è l’impegno nei confronti dell’opera: il modo in cui presentano il prodotto è più grande, fuori dall’ordinario, come per le colonne sonore, adoro questo modo di fare operistico, così esagerato. Il primo libro che ho letto sugli Spaghetti Western è stato nel ’79, ed era un libro pubblicato in Inghilterra intitolato Spaghetti Western: L’Opera Della Violenza. E credo di stare cercando di realizzare la mia opera della violenza ormai da una vita!».

Ma dopo Bastardi Senza Gloria e C’Era Una Volta A… Hollywood, c’è una terza riscrittura tarantiniana della storia in programma? «In realtà credo che sia questa la terza riscrittura tarantiniana. Bastardi è stata la prima, Django la seconda, e questa è la terza nella mia personale “trilogia”».

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A un certo punto Enrico Magrelli, il moderatore dell’incontro, nel porre una domanda a Margot, decide di rendere noto agli ospiti il titolo italiano di The Wrecking Crew, ovvero Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, provocando le sonore e incontrollate risa di Tarantino, che una volta ricominciato a respirare ha affermato: «Voi italiani e questi titoli! The Inglorious Bastards (di Castellari) lo avete tradotto Quel Maledetto Treno Blindato… Perché???»

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Ad ogni modo, la Robbie racconta poi, come richiesto da Magrelli, l’esperienza sul set il giorno della già più volte citata scena al cinema: «Il giorno in cui abbiamo girato la scena, Quentin mi raccontò che a lui capitò una cosa simile una volta in un cinema che dava True Romance, e che allora di getto pensò “Beh, ho scritto io il film, posso entrare gratis?”. Ed era una storia così dolce. E credo che molte delle cose di questo film, questi piccoli ricordi di Quentin inseriti nella narrazione, rendano tutto ancora più specifico, intimo e speciale. Io non c’ero ancora nel ’69, ma Quentin sì, e quando ho letto la sceneggiatura, mi sono sentita trasportata in quegli anni, era come se stessi leggendo dal suo punto di vista come fosse vivere a quel tempo, e ha reso tutto più speciale. Cosa c’era in radio in quel periodo? Quali canzoni si sentivano? Cosa trovavi per strada viaggiando in macchina, cosa avresti visto passando? Questo livello di specificità è davvero un dono. Non dovevi nemmeno immaginarti altro oltre a quello che aveva detto Quentin. E anche sul set… Lui non si affida alla CGI, ed essere su un set del genere di questi tempi è davvero raro. In alcuni casi sei circondato da green screen, e il resto verrà aggiunto in un secondo momento. Non so dire quale gioia è stata non solo prendere parte a quella scena in particolare, essere davvero al Bruin, e sapere che anche Quentin ebbe un’esperienza simile, ma proprio essere nella Hollywood del ’69, perché è così che ci si sentiva. È stata una delle gioie più grandi della mia carriera, e non so se riuscirò a provare lo stesso in un’altra occasione».

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Quanto la Hollywood di oggi è diversa da allora? E il cinema può davvero mutare la realtà? Risponde Tarantino: «Per me il cinema è così diverso da quando iniziai io negli anni ’90, figurarsi rispetto al 1969! Una cosa la dirò però. Ogni volta che mi fanno una domanda, vorrei dire così tante cose che ho in mente, che di solito vado con la prima che mi viene. Questa volta è un po’ come ha detto anche Margot: ai vecchi tempi, come forse li possiamo chiamare, ma anche negli anni ’90, la gente costruiva ancora i set. Non era solo materiale aggiunto dopo. Mi piace vedere film come Life Force di Tobe Hooper, in cui c’erano questi magnifici set situati in enormi magazzini dove ricreavano completamente questi nuovi mondi. E non sembravano poco verosimili. Guardavo Cutthroat Island di Remy Harlin, ed era già di per sé un  buon film, ma dal punto di vista della scenografia era davvero fantastico; avevano costruito questo villaggio intero, e c’era questa sequenza d’azione che potevano fare solo in quel modo. Non c’era CGI, è costata una fortuna, ed è tutto lì, sullo schermo. E adesso anche i film con un budget davvero grosso non hanno tempo per queste “cavolate”.  E credo semplicemente che qualcosa sia andato terribilmente perduto. E questa terribile perdita riguarda l’effetto visivo, il film e soprattutto la fattura. E credo che questo rappresenti un pericolo [per la cinematografia]. Una delle cose che meno gradisco di questa digitalizzazione non è solo il fatto che, da vecchiaccio brontolone quale sono preferisco la pellicola al digitale, ma è tutto quel processo artigianale che c’è dietro ogni stadio del voler catturare l’immagine in un certo modo. È facile ricorrere al digitale, è facile anche quando si pianifica soltanto di ricorrerci, perché il video ti dà una vasta scelta e una maggiore libertà d’azione. Ma se hai qualcuno come Bob Richardson [direttore della fotografia di Tarantino], lui ha catturato l’immagine così bene che, una volta passato per tre processi di duplicazione, il film che avete al cinema è assolutamente fantastico. Molti non sanno come fare una cosa del genere, ed è ciò che distingue quelli veramente bravi dagli altri. Le persone che sanno prendere la pellicola e lavorarla fino a che quello che viene mostrato sullo schermo non risplenda di luce propria. E questa è la fattura artigianale, e si sta sempre più estinguendo, ragazzi. Non so se il cinema può cambiare la storia, ma so che può influenzarla».

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È ancora Magrelli a chiedere, questa volta a Leonardo, come ci si sente nel diventare l’attore di riferimento di un regista, e quali sono le responsabilità crede di avere in quanto tale. «Credo che se la mettessi in termini di responsabilità sarebbe un po’ intimidatorio. In tutta onestà, sono cresciuto come fan dei film e del cinema. A ogni attore che mi chiede consigli per farcela in questa industria, la prima cosa che dico è “Guardate più film che potete. Trovate i vostri eroi. Trovate qualcuno o qualcosa che vi influenzi. Create la vostra identità… Abbiamo dei giganti come predecessori. E come dicevamo prima, magari guardate indietro a quanto fatto in passato, che so, negli anni ’20”. Parlando di set, ti trovavi davanti questi set che sembrava veramente di essere nel Selvaggio West. Il numero di persone che si riuniva per creare qualcosa di nuovo a livello visivo… Abbiamo tutta questa storia a cui guardare, e ci sono così tanti generi e così tanti periodi nella storia del cinema che possono influenzarci. Di solito quello che mi domando è piuttosto “Con chi voglio lavorare che riuscirà a pormi in una situazione tale che io possa dare il meglio di me? Chi sarà in grado di dare vita a quella sceneggiatura che ho letto? È un mezzo che è fatto per i registi, noi vediamo il cinema attraverso gli occhi del regista, quindi chi di loro sarà in grado di far risaltare al meglio la performance dell’attore, la sceneggiatura, e dare all’audience quella sensazione rara di poter davvero creare una connessione con quello che accade sullo schermo? È un dono raro. Quindi sì, per me fa tanto il regista, ed è ciò che cerco di solito».

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E dopo la risposta all’ultima domanda e un «Grazie! Grazie a voi, è una delle conferenze più appassionate a cui io abbia mai preso parte» da parte di Tarantino, ci accingiamo a salutare i monumentali artisti che ci hanno accompagnato, almeno per un po’, in questo viaggio attraverso Hollywood, il cinema e la sua storia.

Laura Silvestri

Foto: Laura Silvestri
Materiali Stampa: Sony Pictures