Il Regno – La Recensione

I re possono cadere, i regni perdurano

Manuel (Antonio de la Torre) è un influente vice segretario regionale che ha tutte le carte in regola per fare il grande salto e imporsi sulla scena politica nazionale, ma viene incastrato da una fuga di notizie che lo coinvolge in uno scandalo per corruzione.

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Vincitore di 7 Premi Goya 2019 tra cui quello per il Miglior Attore Protagonista e per la Miglior Regia, a fronte di 13 nomination, Il Regno (El Reino), pellicola del 2018 diretta da Rodrigo Sorogoyan (Che Dio Ci Perdoni), con protagonisti Antonio De La Torre (Ballata dell’Odio e dell’Amore, Abracadabra) e José Maria Pou (Mare Dentro), è un thriller politico che dipinge la realtà del mondo moderno e ritrae un segmento della società, l’élite politica, come non è mai stato osservato prima. E lo fa attraverso gli occhi di un politico corrotto, impegnato in una lotta per la sopravvivenza dopo aver superato il limite, spinto dal partito e dai propri interessi.

Come un provetto Mr Wolf di tarantiniana memoria, Manuel Lopez Vidal  – vice segretario regionale pronto al grande salto nella politica che conta – mette pezze, risolve problemi, ottiene consensi, divenendo un elemento prezioso del partito politico, ma delle intercettazioni e un’accusa di corruzione incrinano il tutto. Con Il Regno, Sorogoyan porta in scena ascesa, caduta e risalita, di uno zelante uomo di potere, depotenziato dalla propria dimensione regionale, che gli va parecchio stretta.

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Delineando un intreccio solido da una struttura narrativa ambiziosa, caricato tutto sulle spalle del Manuel di De La Torre, il cui arco narrativo è un continuo ribaltamento di ruoli da carneade a vittima, ora subendo passivamente ora invertendo la posizione cercando di trovare le contromisure necessarie a un sistema marcio attraverso le sue stesse regole.
Per una vita in bilico tra sfera pubblica e privata – Manuel infatti – oltre che politico è marito e padre, e gli eventi alla base de Il Regno mettono in dubbio tutti i ruoli sociali che s’è saputo creare nel corso della sua carriera (e vita).

Fino alla suggestiva sequenza conclusiva, dove Manuel e il suo castello di carta dovranno affrontare l’opinione pubblica, la cui voce della giornalista non è che quella del popolo oppresso dinanzi alla corruzione della classe dirigente.

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La regia di Sorogoyan, ispirata e ricca di citazioni – a cominciare dalla suggestiva sequenza d’apertura che rievoca il piano sequenza d’ingresso nel ristorante de Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese – è fatta principalmente di piani medi, particolari e primi piani, volti così a sottolineare gli elementi scenici e il ritmo serrato dei dialoghi, ma anche di semi-soggettive su Manuel, indicanti da subito il punto di vista alla base della narrazione.

Permettendo così al Manuel di De La Torre di muoversi nell’ambiente narrativo dei meandri della politica spagnola de Il Regno – a metà tra Indagine su un Cittadino al di Sopra di Ogni Sospetto  (1971) di Elio Petri e House of Cards di Beau Willimon –  i cui movimenti dietro le quinte sono esaltati da una fotografia di pochi (e spesso freddi) elementi diegetici e principalmente di ombre negli ambienti chiusi, in linea con il tono della pellicola.

Una delle principali debolezze alla base della pellicola  – tuttavia – pur a fronte di un solido intreccio e di una regia che sa fare ben trasparire il conflitto di un uomo nel riequilibrare la propria posizione all’interno del partito, è il montaggio che tende a rendere la pellicola – dal ritmo già lento e cadenzato e dai dialoghi serrati – un’intessitura di sequenze disorganiche il cui effetto clip show va lentamente ad attenuarsi con il crescere graduale della posta in gioco.
L’altro è la colonna sonora, minimale, le cui sonorità techno tendono a creare un effetto straniante nello spettatore.

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Sorogoyan delinea così con Il Regno una rappresentazione verosimile di un sistema marcio e corrotto come quello politico, senza tuttavia prendere posizione giudicante, a partire dalla caratterizzazione del suo protagonista. Il Manuel di De La Torre infatti, non è un uomo innocente, ma un assetato di potere le cui accuse di corruzione gli impediscono di poter incedere nel suo piano e di avere l’appoggio del suo partito – impegnato in tutti i modi a liberarsi di questa patata bollente.
Per un personaggio, quindi, senza alcuna crescita narrativa o conflitto interiore, né tantomeno senso di colpa, anzi, coerente e ben consapevole del suo operato e dei meccanismi della macchina ben oliata che è la politica.

Il Regno di Sorogoyan è certamente una pellicola avvincente e di indubbio interesse, che conferma ancora una volta il talento di Antonio De La Torre come uno degli attori iberici più brillanti della sua generazione.

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Il Regno sarà al cinema il 5 Settembre.

Francesco Parrino

 

Info 

Titolo Originale:  El Reino

Data di uscita: 5 Settembre 2019 

Durata: 132’

 Regia: Rodrigo Sorogoyen 

Con: 

Antonio de la Torre, Mónica Lopez, 

Josep Maria Pou 

Distribuzione: Movies Inspired

Goldstone – La Recensione

Qui, anche la più piccola pietra può provocare una frana imponente.

“Non è un paese per giovani donne” 

In una Goldstone fatta di tramonti rosa, container, roulotte dispersi nella sabbia e corruzione, il detective Jay Swan, uomo di poche parole e dal triste passato, dovrà indagare sul caso della scomparsa di Mei Zhang, una ragazza cinese.

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Attraversando l’unica strada che porta alla mineraria cittadina australiana di Goldstone, il detective Jay Swan (Aaron Pedersen), sbandato nella guida e incline allo scolare l’ultimo goccio dalla bottiglia, fa il suo primo incontro con Josh (Alex Russel), un giovane poliziotto, che sulle prime appare come l’unico garante della sicurezza della città, l’uomo che dovrebbe reprimere quella corruzione che invece “guadagna sempre più terreno”.

E mai espressione sembra essere più adatta: infatti gran parte dell’aspetto illegale della storia riguarda proprio il sospettabile ampliamento territoriale della miniera Furnace Creek, che dovrà estendersi per l’intero bacino aureo.

Come spiega il sindaco Maureen (Jaki Weave), per ottenere tale concessione occorre l’approvazione degli indigeni. Dato che potrebbero presentarsi “migliaia di intoppi burocratici”, il compito che la donna assegna a Josh è proprio quello di contenere possibili le complicazioni. Va da sé che tra queste si aggiunge immediatamente l’arrivo di Swan che, per trovare la giovane scomparsa, potrebbe venire a conoscenza dei vari traffici del sindaco Maureen, il cui motto è lapidario: “Qui, anche lapiù piccola pietra può provocare una frana imponente. E non siamo molto gentili con chi arriva e lancia le pietre senza ragione.”

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 Dopo Mystery Road (2013), Ivan Sen torna a dirigere un nuovo capitolo delle vicende dell’ispettore Jay Swan, dedito all’alcol dopo la perdita della figlia.

Per alcuni versi Goldstone sembra strizzare l’occhio all’aspetto sociale dei vecchi film western, quelli in cui un personaggio dalla discutibile moralità si rivela essere un puro.

Swan, che appare sempre come un uomo molto sporco, malcurato e sbronzo è “il buono” della vicenda, così come la prostituta “on the road”, Anne “Pinky” (Kate Behan), che si rivela essere una preziosa aiutante. Allo stesso tempo, il sindaco Maureen, che compare sempre così elegante e curata al punto da stonare con la polvere del deserto, diventa il personaggio più viscido dell’intero film.

Interessante è la “firma” dei loschi accordi della donna: la consegna di una torta di mele a coloro che devono tenersi alla larga dai suoi affari. E se una mela al giorno leva il medico di torno, una torta sicuramente ha un raggio di azione molto più ampio.

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Il genere del film sembra oscillare tra il thriller e il noir: non mancano infatti le sparatorie, le scene di inseguimento in auto, le supposizioni fatte dai due poliziotti, le – più o meno – false piste che gli vengono fornite e i depistaggi del caso. Tutto questo dovrebbe conferire un senso di dinamicità che però va perdendosi a causa della presenza di numerose sequenze troppo lunghe e quasi prive di un commento audio.

Le musiche diventano dei suoni ambientali, i dialoghi sono composti da moniti coloriti da un linguaggio scurrile per far sottolineare l’estrazione sociale di un determinato personaggio.

Dati pleonastici.

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Un valido punto di forza sta nella pittoresca fotografia, curata dallo stesso Sen: i campi totali e le riprese dall’alto evidenziano la bellezza dei territori australiani, soprattutto nelle sequenze girate al tramonto.

In aggiunta, vanno menzionate anche quelle inquadrature dedicate alle insegne al neon dei container adibiti a pub, o quella sulla roulotte “Pinky’s” di proprietà di Anne.

In definitiva, Goldstone è un film che potrebbe catturare quella fetta di pubblico che si lascia raccontare delle storie composte da trame e fitte sottotrame, colorite da personaggi con un passato che riaffiora in maniera decisiva e che, spesso, determina le loro scelte.

Un consiglio che vi diamo è quello di non trascurare i dettagli, perché è lì che risiedono il diavolo e le soluzioni delle varie vicende.

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Goldstone uscirà nelle sale italiane l’8 agosto, distribuito da Movies Inspired.

Lucrezia Roviello

 

Info

Titolo: Goldstone

Data di uscita: 8 agosto 2019

Durata: 110’

Regia: Ivan Sen

Con: 

Aaron Pedersen, Alex Russell, 

Jacki Weaver, David Wenham, 

Pei-pei Cheng, David Gulpilil, Linda Chien

Distribuzione: Movies Inspired


The Guilty – Il Colpevole — La Recensione

Le sfumature del senso di colpa

Un centralinista del pronto intervento di Copenaghen riceve la telefonata di una donna in pericolo. Ben presto si rende conto che la faccenda è molto più inquietante e delicata di come appare. Basteranno il suo sangue freddo e la sua tenacia a risolvere la situazione?

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Il regista danese Gustav Möller mette in piedi un gruppo tecnico costituito in sostanza dai suoi colleghi alla National Film School Of Denmark, e sforna una delle produzioni più interessanti dell’ultimo periodo nell’ambito del genere thriller.

Tutto prende il via quando il regista decide di ispirarsi ad una reale telefonata al 911.

 La storia che si delinea è presto detta: Asger (Jacob Cedergren) è un agente di polizia di Copenaghen, relegato però al centralino per le emergenze. Giunto al termine di un turno che sembra quasi annoiarlo – tra ubriachi molesti e uomini che si vergognano di ammettere che a rapinarli è stata una prostituta – all’improvviso riceve una telefonata che lo mette all’erta.

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Iben, la donna all’altro capo del telefono, finge di parlare con la figlia, ma è chiaro fin da subito che cerca aiuto dopo essere stata sequestrata. L’agente – sempre fermo alla sua postazione – si adopera in tutti i modi per rintracciare il veicolo da cui donna sta chiamando, così da poterla aiutare.

Perché così tanta premura, al punto da non voler abbandonare il turno ormai terminato da un pezzo? È qui che affiora un pezzo importante del mosaico: Asger è sempre stato un poliziotto impulsivo, e ha fatto cose per cui ha dovuto pagare al cospetto della legge, e non solo… I sensi di colpa più laceranti lo tormentano incessantemente.

Abbiamo, insomma, un protagonista che col suo telefono diventa l’unico nostro contatto con gli eventi che si delineano durante il film, e una sola, ristretta ambientazione (il centralino) che riesce comunque a trasportarci per le strade trafficate e mostrarci quello che non ci è permesso vedere. Non è per niente facile sottostare a questi limiti imposti, e  non è per niente facile farlo riuscendo a sfoggiare, ad ogni modo, una massima credibilità. Eppure, qui, ci si riesce.

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Si punta tutto sull’espressività magnetica dell’unico attore in primo piano e sulle immagini che si imprimono potentemente attraverso il solo supporto vocale. Paradossalmente, però, sono i silenzi a riversarsi sulla pelle come acqua gelata, togliendo il respiro, e generando tensione perfetta. Inoltre, suo modo, anche l’angusto scenario “vive”: dall’iniziale illuminazione fredda e asettica ci ritroviamo gradualmente catapultati nell’oscurità, culminando con una fioca e angosciante luce rossa utilizzata ad arte. 

In linea con il film, anche la conferenza, con l’attore danese ma di origini svedesi Jakob Cedergren, è stata molto interessante. Con quella compostezza tipica della Scandinavia, Jakob ha raccontato di non aver avuto difficoltà nel lavorare “in maniera così ristretta”, potendo relazionarsi quasi esclusivamente attraverso un telefono: «questo ha a che fare con il regista» ha affermato, «Gustav ha creato veramente un’atmosfera giusta, per cui si è svolto tutto in maniera molto naturale. Come se fossi stato veramente in quella situazione. Io parlavo al telefono ma… Era tutto dal vivo!».

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Dopo avergli accennato il fatto che Jake Gyllenhaal avrebbe comprato il soggetto in vista del remake americano commenta: «Lo prendo come un omaggio. Mi auguro che riescano a renderlo una cosa loro, perché diversamente non potrebbe funzionare». Ha poi candidamente ammesso che, nonostante le numerose esemplari prove cinematografiche sulla scia dei “personaggi sempre al centro della scena e sempre in un solo posto”, lui si ispira alla vita vera, a ciò che lo circonda… Ed effettivamente, gli studi affrontati sul campo danno i loro frutti, e sembrano aiutare non poco la costruzione scenica della pellicola.

Senza andare oltre, per non rischiare di rovinare il delicato e raffinato lavoro di suspense, The Guilty – Il Colpevole è un vero e proprio gioiellino che può nascere soltanto quando la narrativa di genere si fa cinema d’autore.

The Guilty – Il Colpevole è al cinema dal 7 Marzo.

Cristiana Carta

 

Info

Titolo Originale: Den Skyldige

Durata: 85’

Data di Uscita: 7 Marzo 2019

Regia: Gustav Möller

Con: 
Jacob Cedergren, Jessica Dinnage (voce),
 Omar Shargawi (voce), Johan Olsen (voce)

Distribuzione: BiM, Movies Inspired

Una Notte Di 12 Anni – La Recensione

 

La Voce del Silenzio

«Al posto vostro mi ammazzerei.

Perché non vi ammazzate?»

Mujica, Rosencof e Huidobro sono tre militanti della guerriglia dei Tupamaros. Come gli altri componenti del movimento, sono stati catturati dal governo militare instauratosi in Uruguay.

Una notte i tre vengono prelevati in segreto dalle loro celle, e saranno costretti a “vivere” per dodici anni in totale isolamento, sottoposti a torture fisiche, e soprattutto psicologiche.

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La cornice storica in cui è immersa la vicenda narrata in Una Notte di Dodici Anni, la pellicola scritta e diretta da Álvaro Brechner (Bad Day To Go Fishing, Mr Kaplan) e presentata in anteprima a Venezia nella sezione Orizzonti, è quella delle azioni di ribellione organizzate tra gli anni Sessanta e Settanta dalla guerriglia dei Tupamaros, movimento politico di estrema sinistra in difesa delle masse rurali più povere.

Gli appartenenti a questo movimento vennero a lungo perseguitati, uccisi, o catturati e sottoposti poi a torture inaudite, inflitte dal governo militare in carica in Uruguay.

La notte dei dodici anni di Josè “Pepe” Mujica (Antonio de la Torre), Mauricio Rosencof (Chino Darìn) ed Eleuterio Fernandez Huidobro (Alfonso Tort) ha inizio nel 1973, quando quattro spesse mura di una prigione priveranno i tre uomini dei loro diritti di libertà e parola, rendendoli «non prigionieri, ma ostaggi».

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Il termine esatto, dopo i primi minuti del film, si intuirà essere, in realtà, non “ostaggi”, ma “cavie”. L’ordine impartito ai militari è infatti: «Visto che non possiamo ucciderli, facciamoli impazzire».

I legami che hanno lasciato fuori dalle loro prigioni sono le allucinazioni che ogni tanto si palesano ai loro occhi e nelle loro menti.

I tre vengono trattati come animali, alimentati da pasti pressoché inesistenti, costretti a dormire su ogni tipo di suolo che trovano nelle varie celle in cui vengono continuamente trasferiti. È così che viene condotto il malato e disumano gioco di spersonalizzazione dell’individuo, ridotto ad essere un corpo che invecchia e deperisce, mentre deambula in pochi metri di spazio.

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Quand’è che un uomo smette di essere tale?

Come fa un uomo a privare un suo eguale della sua essenza?

Nell’opera si parla infatti di persone che, per un perverso meccanismo, si delineano come vittime e carnefici e, per quanto possa essere incisivo l’ordine «facciamoli impazzire», anche il carnefice ha dei limiti: quello di Una notte di 12 anni si troverà a ringraziare con sincerità l’uomo che sta torturando per averlo aiutato.

L’elemento chiave del film è la parola: che sia sussurrata, urlata, in codice morse o scritta, essa costituisce ciò che non può essere alienato all’uomo stesso.

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Nella conferenza a seguito della proiezione del film, Brechner ha spesso ribadito il concetto di “umanità”, sottolineando che, grazie all’aiuto di neurologi, ha potuto comprendere la difficoltà del rimanere un essere umano dinnanzi a circostanze estreme: la cella diventa la dimensione limite che, paradossalmente, ha permesso a Mujica, futuro presidente uruguayano, di ritrovare se stesso: «Sono stati i dodici anni più orrendi della mia vita, eppure non sarei la persona che sono se non avessi avuto tutto quel tempo per essere me stesso».

La forza di questo film è resa anche dall’impiego della fotografia, curata da Carlos Catalán, e dalla modalità di utilizzo del suono, curata da Martin Turon.

I dettagli del volto, delle mani e delle dita dei personaggi si contrappongono ai campi totali dei paesaggi che essi sono costretti ad attraversare: il Sole, inizialmente oscurato da lastre di ferro bucherellate poste dinnanzi alle celle, si sprigiona in tutta la sua potenza nelle praterie verdi.

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L’iperacusia generatasi nella mente di Mujica – ormai sulla via della follia – e acutizzata dallo sgradevole rumore  delle nocche che battono sui muri delle celle, sfuma nell’emozionante scena accompagnata dalla versione di The Sound of Silence realizzata da Silvia Pérez Cruz.

Il monito “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”, inciso sulla parete della prima prigione in cui vengono trasportati i tre, non è molto diverso dal raccapricciante “Le parole dei profeti sono scritte sui muri delle metropolitane e sui muri delle case popolari”del brano di Simon & Gurfukel.

Se oggi possiamo parlare di questo film è grazie al fatto che i protagonisti non hanno lasciato ogni speranza ma, aggrappandosi ad essa, hanno fatto diventare voce quel “suono del silenzio.”

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Il film, distribuito da BIM DISTRIBUZIONE e MOVIES INSPIRED è in sala dal 10 gennaio 2019

 Materiali Stampa: US

Lucrezia Roviello

 

Info



Titolo Originale: La Noche de 12 Años



Durata: 122’



Data di uscita: 10 gennaio 2019



Regia:  Álvaro Brechner



Con: 

Antonio de la Torre, Chino Darìn, 

Alfonso Tort, Soledad Villamil, 

Silvia Pérez Cruz, Cesar Troncoso, 

Nidia Telles, Mirella Pascual



Distribuzione: 

BIM DISTRIBUZIONE – MOVIES INSPIRED

Una Notte Di 12 Anni – Clip, Sinossi, Poster e Immagini Del Film

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Il film scritto e diretto da Alvaro Brechner e distribuito da Bim Distribuzione e Movies Inspired è in uscita giovedì 10 gennaio 2019.

Di seguito la clip e la sinossi ufficiale.

La Notte Dei 12 Anni – Clip

Sinossi:

“L’Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare. Una notte di autunno, tre prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione segreta. L’ordine è chiaro: «Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia». I tre uomini resteranno in isolamento per 12 anni. Tra loro c’è anche Pepe Mujica, futuro presidente dell’Uruguay.”

Nel cast Antonio de la Torre (Josè “Pepe” Mujica), Chino Darìn (Mauricio Rosencof), Alfonso Tort (Eleuterio Fernàndez Huidobro), Soledad Villamil (Psichiatra), Silvia Pérez Cruz (Graciela), Cesar Troncoso (Comandante), Nidia Telles (Rosa), Mirella Pascual (Lucy).

Materiali Stampa: US

Lucrezia Roviello